Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Alla Guggenheim il misticismo di Mark Tobey
Alla Collezione Guggenheim un omaggio al pittore statunitense con 66 opere dagli anni Venti agli anni Settanta. L’incontro con la filosofia orientale. La sua ricerca ha anticipato il linguaggio di Rothko e Pollock
Inquieto, mistico, cittadino del mondo. È un appassionato di spiritualità Bahà’ì eppure niente lo ispira più dei «muri e i tavolati e le muffe e i marciapiedi su cui sono state lasciate le cose»: Mark Tobey incarna il Novecento americano, crocevia di modernità, ma rifuggendo sempre da qualunque etichetta e con la tensione a esplorare terreni inconsueti. A lui va ora l’omaggio della Peggy Guggenheim Collection di Venezia (visitabile fino al 10 settembre), con una mostra raffinata e colta, curata da Debra Bricker Balken che ci ha dedicato gli ultimi dieci anni di ricerche. «È l’esposizione che più va in profondità nella poetica e nel mondo di Tobey negli ultimi decenni», sottolinea Philip Rylands, che con questo progetto lascia le redini della Collezione in laguna.
«Mark Tobey, luce filante» raccoglie 66 dipinti, in un percorso che parte dagli anni Venti fino alla vigilia dei ‘70. Una vera e propria indagine sulla dimensione pionieristica dell’artista americano, nato come illustratore e immersosi sempre più nei linguaggi pittorici, fino a diventare un maestro e un ispiratore. La sua ricerca testarda di bellezza radicale lo porta ad anticipare e ad affascinare quello che poi sboccerà nell’espressionismo astratto e giù nell’informale.
Assimilato spesso alla ricerca e ai linguaggi di Mark Rothko e a Jackson Pollock, Tobey riesce a non rimanere prigioniero di alcuna tendenza, scuola, movimento. Classe 1890, nato in Wisconsin, passa l’infanzia in un Midwest di cui non avrà mai nostalgia e non considererà mai un mondo a cui tornare: il suo Middle West datato 1929 è un paesaggio ancora formale, ma asettico e anaffettivo. La sua inquietudine lo porta a insegnare in Inghilterra nella comunità sperimentale di artisti e filosofi di Totnes e da lì verso Shanghai, Hong Kong e il Giappone. Quello con l’Oriente è uno dei suoi incontri fatali. Va a New York e si rifugia a Seattle, torna in Europa e si ferma 16 anni a Basilea, dove morirà nel 1976.
L’intera «scrittura bianca», ovvero quei tappeti pittorici tempestati di segni, ghirigori, reticoli, maglie minute che cominciano ad apparire negli anni ‘40 tessono senza sosta un paesaggio interiore, calligrafico, emotivo. A volte emerge in un candore cangiante (The way, 1944), sempre più si concentra su microcosmi dove fluiscono labirinti luminosi o foschi.
A un certo punto Tobey scopre le grandi dimensioni delle tele, si apre a nuove profondità fino a trovare pulviscoli rosati (Cantico, 1954) o azzurri pervasivi (Fragments in time and space, 1956). Osserva le città, ne ha nostalgia, vi ritrova l’urgenza visiva del caos e l’analogia con «i canali linfatici percorsi dalla clorofilla nella foglia».
Tracce di Oriente ed Occidente si mimetizzano e scrivono significati inediti. Negli anni ‘50 Mark Tobey è consacrato a Parigi e alla Biennale di Venezia (rappresenterà gli Usa nel 1958 e raccoglie il premio Città di Venezia per la pittura) ed è in quel momento che il suo respiro si allarga e si stende nelle opere: la ricerca nella grammatica di segni e cromie diventa una Aurora profetica (1958), Spazio tremolante (1961), un Magic Eye, un Viaggio ignoto (1966).
In questo suo lungo percorso Tobey sguscia via da chi tenta di incasellarlo in un certo spirito americano. O, meglio, sembra interrogarsi costantemente su cosa significhi questa «americanità». E così la osserva sempre da punti di vista inclinati o cercando via via di allontanarsene. Lascia in dote uno sguardo rizomatico, messo in scena nelle sue opere, che anticipa ancora una volta le riflessioni sulla realtà come faranno poi i filosofi francesi un decennio dopo.