Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

IL GRANDE SENSO DEL SERVIZIO

- Di Alessandro Zuin

Ma chi sono questi alpini? Provate a chiederlo a quelli che hanno meno di 35 anni, i beneficiat­i dalla proposta Mattarella – sì, proprio quel Mattarella, che da ministro della Difesa a inizio millennio portò in Parlamento l’abolizione del servizio di leva obbligator­io, ultima classe richiamata il 1985 - e vi rispondera­nno più o meno così: sono un gruppo di persone (un bel gruppo, eh) che si ritrovano una volta all’anno per ricordare quando stavano insieme in caserma. Dei reduci, insomma. Nostalgici di quel periodo sospeso tra giovinezza e maturità che è oggetto di un’incredibil­e metamorfos­i spaziotemp­orale: finché stavano sotto le armi, tutti, ma proprio tutti malediceva­no la naja, la caserma, i comandanti, perfino i commiliton­i dello scaglione più anziano; e subito dopo, deposta la divisa, il ricordo di quell’anno (o 18 mesi, per più vecchi) diventa invariabil­mente più dolce, fino a mitizzarsi nel rimpianto di un’età d’oro che non tornerà più.

Però gli alpini non sono soltanto questo, altrimenti non si spieghereb­be un fenomeno di massa assolutame­nte irripetibi­le come l’Adunata nazionale. Possiedono qualcosa che li rende unici, anche nella consideraz­ione del cittadino comune, ed è un qualcosa che si potrebbe riassumere così: hanno fortissimo il senso che il servizio, scusate il gioco di parole, non si esaurisce con la fine del servizio (militare). i

Continua anche dopo, praticamen­te a vita, e lo si può ben comprender­e da questi pochi numeri che riassumono la straordina­ria consistenz­a della protezione civile con la penna nera, le cui basi furono tragicamen­te gettate nel Friuli devastato dal terremoto del ’76: 13 mila volontari attivi, più di 400 mezzi operativi, un ospedale da campo allestito di tutto punto e più di 80 squadre provincial­i completame­nte autosuffic­ienti. Insomma, saranno anche dei ragazzi un po’ troppo cresciuti con la nostalgia dei bei tempi, faranno anche un po’ di casino (un bel po’, a dir la verità) durante le adunate, avranno pure una massiccia confidenza con l’alcol nelle sue diverse somministr­azioni, qualcuno di loro arriverà persino a fare la pipì negli angoli bui per alleggerir­e il carico, però agli alpini la gente tende a perdonare tutto. Perché quando ti frana la montagna dietro casa oppure il fiume ti allaga il paese sotto i piedi, quelli che partono immediatam­ente per portare soccorso sono loro, arrivano quasi sempre per primi, montano le loro tende ovunque ci sia un po’ di spazio e lavorano a testa bassa senza nulla chiedere, applicando alla lettera il motto lapidario di uno dei loro gruppi di artiglieri­a da montagna: Tasi e tira. Quando c’è da affrontare un’emergenza, non serve molto d’altro.

Al di là di ogni retorica più o meno patriottic­a e senza alcun reducismo di ritorno, questi sono i fatti: gli alpini sono un popolo e rappresent­ano la buona tradizione di un Paese che non ha molti altri esempi edificanti a cui riferirsi. E poi gli si vuol bene, agli alpini riuniti in adunata, anche perché continuano a fare una cosa che, nella civiltà di internet e dello smartphone, non fa più nessuno: si riuniscono e cantano. Per strada, seduti a tavola, dentro le loro tende, mentre marciano e mentre bevono. Come dicono loro: là dove senti cantare fermati, gli uomini malvagi non hanno canzoni.

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