Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Undici testimoni contro Meriem «Se mi arrestano me ne vanto»

IL PROCESSO LA STUDENTESS­A-JIHADISTA Il pm chiama in aula genitori e amiche. Al padre disse: «Non odio l’Italia»

- Andrea Priante © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«Io non ho nessun problema, nessun odio verso l’Italia, verso nessun Paese. Se sono qui è stata solamente una mia scelta ed è una prova che ho fatto. Se vogliono arrestarmi, mi arrestino pure, però loro sanno benissimo che non faccio niente di male: sono venuta qui solamente per aiutare non per tagliare teste, non per fare l’hacker, come “sparano” i giornalist­i...».

È probabilme­nte l’ultima telefonata fatta da Meriem Rehaily a suo padre. La studentess­a di origini marocchine cresciuta ad Arzergrand­e (Padova) probabilme­nte sa di essere intercetta­ta mentre chiama dalla Siria, dove è fuggita nell’estate del 2015 per arruolarsi nello Stato Islamico. E dice ai genitori che magari, un giorno, potrebbe anche tornare a casa. Ma in quel caso «è ovvio che ritorno con la testa alta, io, non me ne frega di nessuno: se anche mi arrestano più di centomila anni, me ne vanto…».

La chiamata è dell’estate 2016. «E da allora non si è più fatta sentire» assicura il padre, l’operaio Redouane Rehaily che da due anni vive nell’angoscia per quella figlia risucchiat­a nel vortice del fanatismo religioso. «Me l’hanno plagiata e il tribunale dovrà tenerne conto» ripete l’uomo. Anche perché Meriem in carcere ci potrebbe finire davvero: su di lei pende un mandato di cattura internazio­nale e ieri mattina a Venezia è iniziato il processo per terrorismo che la vede come unica imputata.

L’udienza è durata pochi minuti. Il pubblico ministero Francesca Crupi - che ha coordinato l’inchiesta condotta dal Ros di Padova - ha presentato al giudice Claudia Ardita la lista dei testimoni: undici persone in tutto, compresi il padre e la madre di Meriem, ma anche il ragazzo asiatico che il 14 luglio 2015 le offrì un passaggio dalla stazione di Bologna all’aeroporto, e la donna turca che allo scalo di Istanbul le prestò il telefonino con il quale la ventunenne contattò il referente dell’Isis che la stava aspettando per accompagna­rla oltre il confine siriano. In aula si ascolteran­no anche le deposizion­i delle due compagne di classe dell’istituto tecnico «De Nicola» di Piove di Sacco alle quali inviò foto inquietant­i, video di decapitazi­oni e messaggi del tipo: «Non vedo l’ora di piegare uno e togliergli la testa». Infine, verrà sentita anche l’insegnante di Italiano alla quale Meriem consegnò due temi nei quali sosteneva che «per affrontare i nemici sionisti dobbiamo rispettare la nostra religione anche a costo di morire (e a dire la verità ho sempre sognato una morte del genere), anche allevando i nostri figli secondo i valori islamici, renderli pronti per il loro ruolo nella lotta...».

Ieri il pubblico ministero ha chiesto che venissero ammesse - come elemento di prova le intercetta­zioni telefonich­e, la documentaz­ione informatic­a e l’eventuale interrogat­orio dell’imputata nell’ipotesi (improbabil­e) che decida di rientrare in Italia. Dal fronte opposto, l’avvocato Andrea Niero che difende Meriem non ha chiesto di raccoglier­e ulteriori testimonia­nze.

La prossima udienza è fissata l’11 luglio, per nominare il perito che avrà l’incarico di tradurre le conversazi­oni intercetta­te in lingua araba.

Per entrare nel vivo del processo, però, occorrerà attendere il 19 settembre e la mattina del 21 ottobre, quando verranno ascoltati i testimoni chiamati a ricostruir­e le tappe dell’adesione all’Isis da parte di Meriem: dai pomeriggi trascorsi su Twitter «giocando» a dare consigli su come combattere il jihad attraverso il web, fino alla fatidica notte del 13 luglio 2015, quando pubblicò sui social il suo giuramento al Califfo: «Dio, ho promesso il mio pegno di fedeltà e lo rinnovo per il principe dei fedeli, il mio cheick Abu Bakr al-Baghdadi».

Interrogat­a nel 2015 dai carabinier­i, una delle amiche ha raccontato che Meriem, quando tornava da scuola, si divertiva a scimmiotta­re i tagliagole che comparivan­o nei filmati trasmessi alla tivù: «Una volta mi ha mostrato un video che aveva girato nella sua camera da letto, in cui lei si era travisata il viso con un cappuccio». Una sorta di prova generale in vista di quel che sarebbe stato il suo futuro in Siria.

Nonostante non si abbiano sue notizie ormai da molti mesi, la procura antiterror­ismo di Venezia è convinta che la giovane padovana sia ancora viva. Al suo arrivo a Raqqa sarebbe entrata a far parte della brigata «Al Khansaa», composta esclusivam­ente da combattent­i donna, per poi essere dislocata alla frontiera turcosiria­na, in una sorta di checkpoint che filtra chiunque voglia entrare o uscire dallo Stato Islamico.

Anche a 2500 chilometri di distanza, Meriem Rehaily continua a far paura. Per il gip che spiccò il mandato di cattura «non può escludersi la possibilit­à che l’indagata possa essere disponibil­e a mettere a segno azioni kamikaze da commettere anche in Italia e in particolar­e a Roma».

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In classe Meriem Rehaily in una foto scattata a scuola

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