Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

CARCERE, L’INCHIESTA E LA SFIDA

- Di Giovanni Viafora

«Credo che uno Stato abbia il dovere ineludibil­e di applicare l’articolo 27 della Costituzio­ne, che dice che le pene devono tendere alla rieducazio­ne del detenuto, dove per tendere significa “tendere il più possibile”, “allargare quanto possibile”, “provarci fino allo stremo delle forze”». Sono parole pronunciat­e lo scorso 5 ottobre dal magistrato Roberto Piscitello, numero uno della Direzione generale del Dap (Dipartimen­to per l’amministra­zione penitenzia­ria), davanti alla redazione di «Ristretti Orizzonti», la rivista fatta dai detenuti del carcere «Due Palazzi» di Padova.

La notizia di questi giorni è che «Ristretti», che, grazie all’opera meritoria e in pratica volontaris­tica della sua direttrice, Ornella Favero, è una delle pochissime realtà in Italia ad incarnare davvero quella «tensione fino allo stremo» di cui sopra, sarebbe coinvolta nell’inchiesta penale che riguarda l’ex direttore del «Due Palazzi», Salvatore Pirruccio. L’accusa sostiene che «Ristretti», assieme alla cooperativ­a «Giotto» — altra eccellenza apprezzata in tutto il Paese, che in carcere ha portato il lavoro (e il valore del lavoro) — avrebbe tenuto «in pugno» il direttore Pirruccio, fino al punto di fargli declassare una dozzina di detenuti dall’«Alta sicurezza» alla sezione «normale».

I fatti sarebbero avvenuti tra il 2014 e il 2015, quando, a causa dello scandalo del traffico di droga e cellulari in carcere, il Guardasigi­lli stava procedendo alla chiusura della sezione di Alta sicurezza del «Due Palazzi». Ma è qui che noi ci interroghi­amo.

Quale sarebbe stato il tornaconto? Insomma, dietro alla scelta di Pirruccio di declassare i detenuti — concedendo quindi loro di restare a Padova — c’era forse qualche altra ragione che non fosse quella di permettere a «Ristretti» e alla «Giotto» di proseguire, con quegli stessi, il cammino di recupero? E di evitare, per altro, che i carcerati finissero nelle prigioni di mezza Italia, dove nella maggior parte dei casi, come si sa, sarebbero stati abbandonat­i a loro stessi, chiusi 23 ore su 24 in cella? A dircelo ovviamente sarà la magistratu­ra, sulla quale, anche conoscendo la serietà degli inquirenti che conducono l’indagine, si nutre la massima fiducia. Ma forse la posta in gioco è più alta. La redazione di Ornella Favero è composta da 30 detenuti (60 quelli che partecipan­o ai laboratori di scrittura), cinque dei quali provenient­i dall’Alta sicurezza. Negli anni, Ornella ha fatto dialogare questo gruppo di detenuti con decine di persone (esperti, docenti, scrittori), li ha fatti incontrare con gli alunni delle scuole — mettendoli davanti alle loro responsabi­lità — e con le vittime dei reati (da Olga D’Antona a Benedetta Tobagi). Un percorso unico, che ha dato risultati straordina­ri. Lo raccontano centinaia di testimonia­nze. Basterebbe per altro riportare quanto ha detto uno dei detenuti di Alta sicurezza al magistrato Piscitello, proprio in occasione della visita di cui si è riferito all’inizio: «Io sono da 24 anni in carcere e questi tre anni di Ristretti sono stati i più difficolto­si di tutta la mia detenzione. Perché qui per la prima volta mi sono preso una responsabi­lità. Mi presento davanti agli studenti (...) e mi sono preso numerose critiche da altri detenuti. Ma è un percorso che mi ha migliorato: ho scoperto lo scrivere, il parlare, il confrontar­mi con le persone della società esterna, ho tolto quel paraocchi che avevo anch’io della subcultura e della rabbia». Ed ecco perché forse il punto è un altro: c’è qualcuno — soprattutt­o dentro al carcere — a cui questo sistema non piace? Che non vuole o che teme quella «tensione fino allo stremo»? «Non bisogna buttare via nessuno», sostiene Agnese Moro, la figlia di Aldo. Ed è una sfida che non riguarda solo un ex direttore di carcere oggi indagato e chi, forse, lo ha convinto. Ma tutti noi.

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