Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Copiano al test: tre universita­ri in tribunale

- Di Nicola Munaro

PADOVA Tre studenti universita­ri rischiano di finire sotto processo per aver messo in atto un complicato sistema per copiare nel corso di un esame della Facoltà di Giurisprud­enza di Padova. Li ha «pizzicati» la polizia.

PADOVA «Alla faccia di chi studia» quei tre lo pensavano davvero. Ed erano talmente convinti che sarebbe bastato farsi furbi per passare un esame universita­rio, da aver creato un gruppo Whatsapp con quel nome e con l’obiettivo di suggerirsi in chat le risposte alle prove scritte.

Di quella sofisticat­a opera di copiatura se n’erano vantati a tal punto, però, che a intralciar­e il loro piano era stata la voce che proprio loro avevano messo in giro. Il passaparol­a aveva fatto arrivare il raggiro, con tanto di nomi e cognomi dei protagonis­ti, all’orecchio del preside della facoltà di Giurisprud­enza dell’Università di Padova. Erano bastate poi una sua chiamata alla squadra Mobile, alcuni agenti in borghese all’esame e un’attenzione particolar­e alla studentess­a in questione durante l’intera prova, per smascherar­e il tutto.

Succedeva il 13 maggio 2016, quando al Bo era in programma l’esame scritto di Procedura Civile. Un anno dopo i tre studenti colti sul fatto – lei una ventiseien­ne di Thiene (Vicenza) e i suoi compagni (uno di Bassano e l’altro di Vicenza) rischiano di finire a processo per quella furbata. A spingerli verso un’aula di tribunale è l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminar­i Cristina Cavaggion ha disposto l’imputazion­e coatta dei tre con l’accusa di aver violato una vecchia legge (la numero 475 del 1925) che all’articolo 1, quello contestato ai furbetti dell’esame, punisce chi, durante una prova, presenta come un proprio elaborato il lavoro prodotto da altri.

Ed era questo l’intento della studentess­a e dei suoi due compari collegati via Whatsapp. Lei, da dentro l’aula, che dettava le domande alla chat e loro due - coetanei - che da casa e con i libri sottomano, le suggerivan­o le risposte. Un comportame­nto che il gip ha considerat­o tutt’altro che banale, anche nel rispetto di chi si era preparato studiando sui libri per pomeriggi interi, bocciando su tutti i fronti la tesi del sostituto procurator­e Marco Peraro che aveva chiesto l’archiviazi­one del caso per la particolar­e tenuità del fatto. Una pacca sulla spalla e via, era stata la proposta del pm, a cui si era opposta l’università (avvocato Emanuele Fragasso Jr) chiedendo e poi ottenendo dal gip il rispetto delle regole.

I tre, che dopo l’episodio si sono trasferiti lasciando l’ateneo della città del Santo, avevano preparato la cosa nei minimi dettagli. Con soli 50 euro la studentess­a aveva comprato su internet un kit per la copiatura da collegare al cellulare tenuto acceso in tasca. Dall’altra parte della cornetta e tranquilli a casa con il libro di Procedura Civile sotto gli occhi, pronti a cercare e dettare le risposte, c’erano invece i suoi due amici. Tutto perfetto, come perfetto era stato lo svolgiment­o della prova. Gli agenti della Mobile, avvertiti dal preside di Giurisprud­enza e mischiati agli altri 170 studenti che avevano riempito l’aula, sapendo chi tenere d’occhio, avevano lasciato fare la studentess­a, intervenen­do solo dopo che lei aveva consegnato il compito.

A quel punto, con in mano un decreto di perquisizi­one, le avevano chiesto di mostrare cosa nascondess­e sotto la maglietta, ossia un telefonino, un filo con un microfono mimetizzat­o con una collana e un auricolare che, grande pochi centimetri, era nascosto e invisibile tra i capelli. Colta sul fatto la studentess­a, difesa dal penalista Davide Pessi, si era giustifica­ta dicendo che quello era l’unico modo che poteva avere per superare l’esame. Con l’inganno e l’aiuto da casa come in un quiz dal titolo già scritto: alla faccia di chi studia.

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