Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
«Resisti» scritto sull’asfalto, salita come via crucis
ASIAGO Sull’asfalto tra Asiago e Foza un anonimo ha scritto «resisti». Neanche tanto in grande, quasi sussurrata, la parola era lì, scritta per nessuno in particolare, urbi et orbi, una parola che da sola vale un’enciclica di Papa Francesco. Il ciclismo infatti non ha tifosi, ha solo appassionati, è duro ma non è mai cattivo, può essere perfino gaglioffo e furbacchione, talvolta bertoldesco e, se ha un naso, «è triste come una salita». Perciò eccoci qua, anche noi ad aspettare Bartali senza i «francesi che si incazzano» e «i giornali che svolazzano», consapevoli che è il 90° e che, dietro la salita, non può comparire quel «naso triste da italiano allegro». Vedremo forse Nibali o chi per lui, ma fa lo stesso: Paolo Conte quelle parole le ha scritte una volta per tutte, raccontando in modo meraviglioso il mistero gaudioso della bicicletta, l’epica popolare che rappresenta e il legame profondo che intrattiene con il popolo. Immutati restano il caldo trasognato, l’attesa e un pizzico di misoginismo («le donne han sempre voglia di far la pipì»).
Bici è chi lo fa direbbe Forrest Gump e, anche se nessuno dice più «sono contento di essere arrivato uno», il profumo degli anni ’60 resta quello, con le sue sgrammaticature, i suoi candori e tanta nostalgia. Il Giro non è una gara, è una commemorazione. Non so dove sia il chip ma devono avercelo piantato in testa nel Dopoguerra, quando l’Italia rinasceva ed eravamo tutti più buoni, creduloni e ingenui. Da allora il ciclismo fa parte della nostra memoria rettile e il chip scatta ad ogni edizione del Giro, fa piangere i vecchi e attiva ricordi di chi non li ha perché non c’era, i vari Millennials e i giovanotti cresciuti al computer. La sfida pedalatoria nazionale detta del Giro è la Via Crucis della nostra storia nazionale, mette in scena il Golgota profano di un paese felice e sfortunato, dalla guerra alla rinascita al boom economico fino ai ripensamenti dei nostri giorni, con le nostre storie di famiglia e personali.
Le salite rappresentano altrettante stazioni, l’offerta della bottiglia d’acqua al corridore non è che la riedizione di Santa Veronica che asciuga il volto di Gesù: anche ieri, sul Grappa e lungo i 23 chilometri che dalla Valsugana portano a Foza, la folla straziata manifestava la propria empatia come neanche a Palermo alla processione di Santa Rosalia, accoglieva i corridori, li incitava, li vedeva salire stravolti dal dolore fisico e gemeva con loro, qualcuno si lanciava in soccorso, acchiappavano il sellino e spingeva da dietro come farebbe, appunto, il Buon Samaritano. Non si fa, è vietato.
Il Giro resta tuttavia cristiano e funziona ancora come una potente evocazione di comunione in un popolo peraltro secolarizzato, il ciclismo è uno dei pochi sport con sottotesto in controtendenza rispetto alla maggior parte degli altri. Gli appassionati (da passione appunto, travaglio e sofferenza) ieri hanno disseminato la tappa di lapidi evocative che sembravano ex voto, con il teschio del Pirata dipinto sui cartelli e il suo nome con quello di Scarponi entrambi accompagnati nella devozione.
Li vedevi scendere i corridori, funamboli attaccati ad un copertone, una volta in pianura erano come il vento, un trasalimento e il gruppone era già volato via. Ma è in salita che il ciclismo celebra, spezza e condivide il corpo mistico del suo mistero, «pesta sui suoi sandali» direbbe Paolo Conte. Voi mi direte che esagero. Bene allora vediamola dal lato pagano.
Il ciclismo è il più ricco di fatica e, con la maratona, forse lo sport più povero di gesti estetici: non prevede apprendistato né scuola (chiunque può salire in bici e andare), è ripetitivo nei movimenti e sempre uguale a se stesso fino all’ossessione. E’ l’Hare Krishna degli sport. Se si può fare un paragone funziona come la canzone di George Harrison della quale il produttore aveva previsto il fallimento. E invece funziona a meraviglia. Ho un’amica (certo, ci sono anche le donne) che in salita conta fino a otto e poi riprende, io ripeto l’ultima stupidaggine che avevo in testa (tipo: torno a casa, torno a casa...). Ognuno quando pedala ha il suo mantra e se lo canta fino a perderne il senso. La fatica è anestetica, il vuoto di una parola o di una frase funzionano come un potente placebo. Insomma, il ciclismo è il posto più desolato e spersonalizzante che la fatica abbia mai occupato per farne il proprio luogo privilegiato, senza ritorno, crudelmente evoca il fantasma del lavoro bruto, quello ancestrale di quando non c’era «realizzazione professionale» e lo tiene a bada. Tra ciclisti – ca va sans dire - le classi sociali sono abolite, non c’è dott o avv che tenga ed è ritenuto una grave mancanza di educazione dirlo.
Una volta ho conosciuto un vecchio ad una fontana (le fontane servono anche a questo): aveva perso moglie e figlia, mi disse che salendo ripeteva i loro nomi e che la bicicletta lo aveva salvato dal suicidio.
Poi c’è l’effetto «bambino» (o del «disarmo unilaterale», lo fanno anche le fiere): sali su una bici, vestiti da ciclista e vedrai, diventi subito simpatico e la gente ti vuole bene a prescindere.