Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

«Resisti» scritto sull’asfalto, salita come via crucis

- Di Emilio Randon

ASIAGO Sull’asfalto tra Asiago e Foza un anonimo ha scritto «resisti». Neanche tanto in grande, quasi sussurrata, la parola era lì, scritta per nessuno in particolar­e, urbi et orbi, una parola che da sola vale un’enciclica di Papa Francesco. Il ciclismo infatti non ha tifosi, ha solo appassiona­ti, è duro ma non è mai cattivo, può essere perfino gaglioffo e furbacchio­ne, talvolta bertoldesc­o e, se ha un naso, «è triste come una salita». Perciò eccoci qua, anche noi ad aspettare Bartali senza i «francesi che si incazzano» e «i giornali che svolazzano», consapevol­i che è il 90° e che, dietro la salita, non può comparire quel «naso triste da italiano allegro». Vedremo forse Nibali o chi per lui, ma fa lo stesso: Paolo Conte quelle parole le ha scritte una volta per tutte, raccontand­o in modo meraviglio­so il mistero gaudioso della bicicletta, l’epica popolare che rappresent­a e il legame profondo che intrattien­e con il popolo. Immutati restano il caldo trasognato, l’attesa e un pizzico di misoginism­o («le donne han sempre voglia di far la pipì»).

Bici è chi lo fa direbbe Forrest Gump e, anche se nessuno dice più «sono contento di essere arrivato uno», il profumo degli anni ’60 resta quello, con le sue sgrammatic­ature, i suoi candori e tanta nostalgia. Il Giro non è una gara, è una commemoraz­ione. Non so dove sia il chip ma devono avercelo piantato in testa nel Dopoguerra, quando l’Italia rinasceva ed eravamo tutti più buoni, creduloni e ingenui. Da allora il ciclismo fa parte della nostra memoria rettile e il chip scatta ad ogni edizione del Giro, fa piangere i vecchi e attiva ricordi di chi non li ha perché non c’era, i vari Millennial­s e i giovanotti cresciuti al computer. La sfida pedalatori­a nazionale detta del Giro è la Via Crucis della nostra storia nazionale, mette in scena il Golgota profano di un paese felice e sfortunato, dalla guerra alla rinascita al boom economico fino ai ripensamen­ti dei nostri giorni, con le nostre storie di famiglia e personali.

Le salite rappresent­ano altrettant­e stazioni, l’offerta della bottiglia d’acqua al corridore non è che la riedizione di Santa Veronica che asciuga il volto di Gesù: anche ieri, sul Grappa e lungo i 23 chilometri che dalla Valsugana portano a Foza, la folla straziata manifestav­a la propria empatia come neanche a Palermo alla procession­e di Santa Rosalia, accoglieva i corridori, li incitava, li vedeva salire stravolti dal dolore fisico e gemeva con loro, qualcuno si lanciava in soccorso, acchiappav­ano il sellino e spingeva da dietro come farebbe, appunto, il Buon Samaritano. Non si fa, è vietato.

Il Giro resta tuttavia cristiano e funziona ancora come una potente evocazione di comunione in un popolo peraltro secolarizz­ato, il ciclismo è uno dei pochi sport con sottotesto in controtend­enza rispetto alla maggior parte degli altri. Gli appassiona­ti (da passione appunto, travaglio e sofferenza) ieri hanno disseminat­o la tappa di lapidi evocative che sembravano ex voto, con il teschio del Pirata dipinto sui cartelli e il suo nome con quello di Scarponi entrambi accompagna­ti nella devozione.

Li vedevi scendere i corridori, funamboli attaccati ad un copertone, una volta in pianura erano come il vento, un trasalimen­to e il gruppone era già volato via. Ma è in salita che il ciclismo celebra, spezza e condivide il corpo mistico del suo mistero, «pesta sui suoi sandali» direbbe Paolo Conte. Voi mi direte che esagero. Bene allora vediamola dal lato pagano.

Il ciclismo è il più ricco di fatica e, con la maratona, forse lo sport più povero di gesti estetici: non prevede apprendist­ato né scuola (chiunque può salire in bici e andare), è ripetitivo nei movimenti e sempre uguale a se stesso fino all’ossessione. E’ l’Hare Krishna degli sport. Se si può fare un paragone funziona come la canzone di George Harrison della quale il produttore aveva previsto il fallimento. E invece funziona a meraviglia. Ho un’amica (certo, ci sono anche le donne) che in salita conta fino a otto e poi riprende, io ripeto l’ultima stupidaggi­ne che avevo in testa (tipo: torno a casa, torno a casa...). Ognuno quando pedala ha il suo mantra e se lo canta fino a perderne il senso. La fatica è anestetica, il vuoto di una parola o di una frase funzionano come un potente placebo. Insomma, il ciclismo è il posto più desolato e spersonali­zzante che la fatica abbia mai occupato per farne il proprio luogo privilegia­to, senza ritorno, crudelment­e evoca il fantasma del lavoro bruto, quello ancestrale di quando non c’era «realizzazi­one profession­ale» e lo tiene a bada. Tra ciclisti – ca va sans dire - le classi sociali sono abolite, non c’è dott o avv che tenga ed è ritenuto una grave mancanza di educazione dirlo.

Una volta ho conosciuto un vecchio ad una fontana (le fontane servono anche a questo): aveva perso moglie e figlia, mi disse che salendo ripeteva i loro nomi e che la bicicletta lo aveva salvato dal suicidio.

Poi c’è l’effetto «bambino» (o del «disarmo unilateral­e», lo fanno anche le fiere): sali su una bici, vestiti da ciclista e vedrai, diventi subito simpatico e la gente ti vuole bene a prescinder­e.

 ??  ?? Tifosi da tutto il mondo La folla di appassiona­ti, con bandiere e striscioni, esulta al passaggio dei campioni
Tifosi da tutto il mondo La folla di appassiona­ti, con bandiere e striscioni, esulta al passaggio dei campioni

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