Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
La «Tradizione» di Mengaldo Scoperte e passioni
Un nuovo volume sul Novecento dello studioso padovano. La passione per Montale e l’attenzione alla produzione dialettale. La riscoperta dei dimenticati
Sono trascorsi oltre quarant’anni dalla primavera del 1975, quando Pier Vincenzo Mengaldo, allora giovane cattedratico ormai rientrato a Padova dopo il tirocinio, o riparo, nelle sedi di Genova e Ferrara, licenziava, sotto un titolo che diventerà esemplare e programmatico, la prima raccolta dei suoi saggi sul Novecento letterario italiano, con una attenzione speciale al versante poetico: Tradizione del Novecento, ormai giunta alla quinta serie, spazia liberamente tra i generi e i decenni, restando contemporaneamente fedele ai grandi -si direbbe assoluti - amori dello studioso, sui quali svetta indiscusso Montale.
La tradizione riassumeva, dunque, il lavoro critico dello studioso giusto alla metà di quel decennio che, persino provocatoriamente, ritornava sui testi delle origini, sperimentali se non avanguardiste, del secolo, profittando delle suggestioni delle scienze umane che abbattevano le barriere umanistiche, rivendicando il primato di un metodo scientifico e, quindi, di risultati inequivocabilmente dimostrati; metodo che Mengaldo evitò prudentemente di far proprio, piuttosto ostentando controcorrente una caparbia fedeltà alla lezione ideologica di un marxismo storicista, per quanto arricchita dai più recenti contributi revisionisti: insomma, Mengaldo non fu strutturalista, se pur senza ignorarne gli esiti più suggestivi, e neppure formalista, nonostante la sua pratica di interpretazione testuale e le sue indagini rigorosamente linguistiche.
Nella prima serie «le due impostazioni (“formalistica” e no) finiscono per essere più separate o giustapposte che fuse», a causa di «difficoltà operative che oltrepassano la persona dello scrivente», cosicché l’esercizio della critica in una prospettiva storica si riafferma come indispensabile e prioritario, tanto che il sottotitolo segnalerà l’oggetto degli studi proprio con una delimitazione cronologica: Da D’Annunzio a Montale (1975).
La seconda o nuova serie (1987) si allontanava da ogni «applicazione sperimentale», rivendicando piuttosto una forte continuità negli autori o nei testi che nei metodi, e di seguito le successive terza (1991), quarta (2000) e ora quinta (Carocci 2017, pp. 438, 43 euro) si manterranno fedeli al proposito di «razionalizzazione del colloquio silenzioso con gli autori e i testi amati», modellandosi «più duttilmente sui liberi percorsi della lettura e della ricapitolazione interiore».
Quest’ultima serie si apre con tre ariosi panorami che disegnano con mano sicura i problemi della traduzione poetica e i percorsi della poesia e della prosa, i quali, anche quando giungono a conclusioni o giudizi assai differenti da quelli che abbiamo intanto fatto nostri, propongono interrogativi e questioni mai superflui, a cominciare dal riconoscimento delle irriducibili resistenze antimoderne di un paese che ha costantemente rinviato il confronto con la modernizzazione urbana e industriale, piuttosto cercando riparo nelle forme di una tradizione fedele ai modi di una letterarietà scolastica, che alla cangiante mobilità di un continuo trasformarsi e innovarsi della società e dei suoi modi di produzione preferiva l’elegante figurazione di un mondo immobile nel quale specchiarsi quieta e fiduciosa, ma anche statica e persino ottusa.
La tradizione di Mengaldo generosamente inclusiva, attenta com’è anche a figure minori, ma non per questo meno significative, si contrappone a quel canone, che, se semplifica la conoscenza, cancella le tracce di quel tessuto connettivo che tiene insieme le molte e varie voci di un coro irriducibile a voci isolate se non a prezzo di un impoverimento drastico.
Certo su tutti svetta il Montale dagli Ossi sino alla Bufera, oscurando sin troppo la gioiosa espressività di Ungaretti, ma Mengaldo è attento alle vivacissime voci della poesia dialettale, a partire dal dimenticato Salvatore Di Giacomo sino a Raffaello Baldini o Franco Scataglini, che rimpiange di non aver inserito nella sua antologia del Novecento, perché conosciuti troppo tardi.
Va infine notato che oltre questa monumentale raccolta di studi sul Novecento a Mengaldo si deve una quantità di lavori e di libri sulla storia della lingua e della letteratura italiana lungo tutto il suo secolare sviluppo che documentano la sua straordinaria operosità e la illuminante intelligenza, lasciandoci credere che dal suo archivio usciranno altri frutti tanto preziosi.