Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Caccia a Johnny lo Zingaro i processi e gli amici veneti
L’ex pm Pavone ricorda la «notte dei giostrai», i processi e i legami con i Sinti a Nordest
TREVISO Giuseppe Mastini, conosciuto con il soprannome di Johnny lo Zingaro, fuggito dal carcere di Fossano, da dieci giorni è l’uomo più ricercato d’Italia. Francesco Saverio Pavone è il magistrato che coor- dinò l’indagine culminata il 13 maggio 1987 con la «lunga notte dei giostrai» in cui finirono in carcere 52 persone, accusate di 32 rapimenti tra Nordest, Lombardia e Abruzzo. L’ex pm ricorda le indagini, i processi, i legami con il Veneto.
TREVISO Da un lato del tavolo Giuseppe Mastini, conosciuto con il soprannome di Johnny lo Zingaro. Dopo l’evasione dal carcere di Fossano, in provincia di Cuneo, da dieci giorni l’uomo più ricercato d’Italia. Dall’altro il giudice istruttore di Venezia Francesco Saverio Pavone.
È la fine degli anni ‘80 e il magistrato, veneto di adozione, cerca le conferme su quello che ha raccontato lo zio di Giuseppe, Aldo Mastini. Quell’incontro in una caserma del Medio Campidano, in Sardegna, è solo uno dei tanti intrecci della storia di Giuseppe Mastini, oggi 57enne, con le pagine della cronaca nera veneta. Francesco Saverio Pavone è il magistrato che coordinò l’indagine culminata il 13 maggio 1987 con la «lunga notte dei giostrai» in cui finirono in carcere 52 persone, accusate di 32 rapimenti tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Abruzzo. L’accusa pesantissima: associazione per delinquere di stampo mafioso.«Quando incontrai Johnny non fu difficile convincerlo a parlare. Sperava in qualche beneficio – racconta Pavone, che da poco è in pensione - non aveva del resto nulla da perdere. Pur giovanissimo aveva già una condanna all’ergastolo, si era da poco guadagnato il soprannome di Zingaro. Lo spostammo dal carcere dove si trovava e iniziammo a chiedergli dei riscontri sui racconti che ci aveva fatto lo zio sull’attività criminale In alto Giuseppe Mastini, Johnny lo zingaro, dall’archivio del Corriere della Sera: negli anni Ottanta terrorizzò Roma. Sotto, foto segnaletiche recenti tra Veneto e centro Italia. La sua testimonianza era fondamentale anche perché forniva un alibi ad uno degli indagati per un rapimento».
All’epoca Giuseppe Mastini aveva una sorta di fascinazione per l’attività dello zio Aldo, un vero e proprio professionista dell’evasione. Classe 1943, 130 chili, etnia sinti, Aldo era conosciuto da tutti con il soprannome di Maciste. E’ lui il primo a «pentirsi» e a collaborare con la giustizia. Aldo racconta a Pavone di come fosse strutturata la banda dei giostrai. Il suo nome compare nel processo per il sequestro dell’imprenditore calzaturiero della Riviera del Brenta Diego Rossi andato a segno il 23 novembre 1979. Tra i sequestri eccellenti della batteria sgominata dalle dichiarazioni di Aldo anche quello dell’imprenditore Gianfranco Lovati Cottini, rapito a Caorle ad aprile del 1975 ucciso durante la prigionia. Maciste è un mago delle evasioni: nel ‘92 viene bloccato dai carabinieri di Ponte di Brenta ma riesce a fuggire dalla cella di sicurezza.
«Aldo veniva visto come un vero e proprio patriarca nella comunità sinti. Quando Johnny venne al dibattimento a confermare le parole che mi aveva detto in Sardegna – riprende Pavone – temeva lo zio: pur sapendo che aveva scelto di collaborare con noi aveva paura di una sua reazione». Il ruolo del collaboratore di giustizia nella comunità sinti del resto non poteva essere visto di buon occhio. «Invece in quel processo presieduto da Ivano Nelson Salvarani, nell’aula bunker di Mestre, zio e nipote si abbracciarono». Un sospiro di sollievo per il nipote che ancora una volta ricalcava le orme dello zio. Anche se l’attività di Giuseppe Mastini era più concentrata nel centro Italia a Nord Est la sua famiglia poteva, e forse può ancora, contare su molti appoggi in Veneto. «La comunità sinti del resto è estremamente solidale».
Ipotizzare che l’ergastolano evaso dal carcere di Fossano abbia trovato riparo in Veneto appare tuttavia poco verosimile: «Oggi in 24 ore sei dall’altra parte del mondo – conclude Pavone – casi come questi, dovrebbero però permettere di ripensare di rivedere il percorso dei permessi a cui vengono ammessi i condannati all’ergastolo».