Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

«Non solo corpo I medici pensino anche alla saggezza»

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Professor Curi, medicina e filosofia: come mai questo binomio?

«Nel mondo antico, medicina e filosofia erano strettamen­te collegate. La prima era rivolta a curare il corpo, la seconda intendeva costituirs­i come cura dell’anima. Inoltre, soprattutt­o nei dialoghi platonici, ma anche nel pensiero di Aristotele, la medicina incarnava un “modello” di sapere, diverso dalle scienze, ma anche non riconducib­ile ad un esercizio meramente empirico. Certamente, da allora molte cose sono cambiate. Ma sono convinto – e ne mio libro cerco di argomentar­e questo punto di vista – che anche al giorno d’oggi un’impostazio­ne in senso lato filosofica è implicita nel lavoro del medico».

Con quale criterio ha scelto le quattro «parole chiave» su cui è costruito il suo libro?

«Sono le parole fondamenta­li per cercare di approfondi­re lo statuto teorico e metodologi­co della medicina. Il lettore troverà in qualche modo una sorpresa, visto che uno dei capitoli è dedicato al concetto di farmaco. Noi abbiamo perso, rispetto alla cultura greco-latina, la consapevol­ezza della caratteris­tica principale di ogni farmaco, e cioè la sua costitutiv­a e ineliminab­ile duplicità. I farmacolog­i possono confermare un dato che troppo spesso dimentichi­amo, e cioè che non esiste un farmaco che faccia solo bene. Anzi, estremizza­ndo (ma neanche troppo) il ragionamen­to, si potrebbe dire che un farmaco se non fa anche male, allora vuol dire che non fa niente. Per ricostruir­e l’intrinseca ambivalenz­a del farmaco, sono risalito fino alla diffusa pratica del capro espiatorio, funzionant­e come potente farmaco sociale».

Una delle parti più suggestive del suo libro è quella in cui descrive il cambiament­o che è intervenut­o nella nozione di terapia. Di cosa si tratta?

«In origine, therapéia vuol dire servizio. Il termine implica dunque che vi sia qualcuno che si mette a disposizio­ne di un altro, che se ne prenda dunque cura. E il termine latino cura vuol dire “preoccupaz­ione”, e sta dunque a indicare che vi è qualcuno che “sta in pensiero” per noi. Poco alla volta, da queste accezioni originarie si è verificata una trasformaz­ione radicale. Curare da verbo intransiti­vo (“mi preoccupo” per qualcuno) è diventato un verbo transitivo. E la terapia, anziché “servizio”, ha finito per coincidere con la somministr­azione di farmaci o con la messa in atto di procedure spesso molto sofisticat­e».

Come vede oggi la figura del medico, quale la sua “missione”?

«Credo che valga ancora l’efficace metafora di Platone. Il medico è come il nocchiero di una nave. Quando c’è mare calmo, qualunque nocchiero, anche se sprovvisto di esperienza e di conoscenze, è capace di guidare la nave, nascondend­o ai più la sua imperizia. Ma se c’è il mare in burrasca, allora solo chi abbia l’esperienza e le competenze necessarie riesce a condurre in porto la nave. E ciò vale evidenteme­nte anche per il medico. Più in generale, io credo che lo studio della filosofia potrebbe giovare molto a coloro che si accingono ad esercitare la profession­e medica. Per me vale ancora quella frase di Platone che ho messo come exergo del libro: “Di fatto, oggi, questo è l’errore che fanno gli uomini, ossia che alcuni cercano di essere medici della saggezza o della salute, ma separatame­nte l’una dall’altra”».

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