Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Una Montagna di Libri, apertura con suor Rosemary

La religiosa ugandese apre oggi a Cortina «Una montagna di libri». «Con ago e filo si possono ricucire le vite»

- Chiamulera

Adesso che guarda le Dolomiti, dove si trova per incontrare i suoi lettori, le sembra, letteralme­nte, di stare in paradiso. Ma tutto, o quasi, cominciò altrove. Lontano, lontano, in quell’ospedale di Kalongo. «Rosemary, finisci tu», le diceva al termine di ogni intervento il chirurgo. E lei imparò a suturare le incisioni, a distinguer­e i tipi di aghi. La stessa tecnica, ma applicata a trame e tessuti, Rosemary Nyirumbe l’ha poi insegnata a migliaia di giovani donne. Le famigerate bambine soldato, reclutate da Joseph Kony in una milizia che è una bestemmia — «esercito di resistenza del signore» — e costrette a compiere le azioni peggiori. Ma quelle che riescono a scappare spesso trovano lei, Rosemary. Che insegnando a lavorare di ago ricuce anche le loro vite. Lo ha raccontato in un libro, scritto con Reggie Whitten e Nancy Henderson: Cucire la speranza (Emi).

Rosemary Nyirumbe, ricorda quando è stata la prima volta che ha deciso di aiutare quelle giovani donne?

«Alla scuola di Santa Monica sono arrivata nel 2002. Ma ero già passata attraverso l’esperienza della guerra e dell’aiuto. Nel 1987 ero a Gulu quando la guerra scoppiò. Vidi quanti fossero i bambini che avevano bisogno di aiuto. E con l’aiuto di alcune sorelle li proteggemm­o. Li nascondeva­mo. Per salvare qualche giovane donna dai suoi persecutor­i arrivammo a vestirla da suora».

Perché proprio il cucito? Chiese consiglio a qualche psicologo?

«No, non chiesi consiglio a nessuno. La prima scuola alla quale ero stata assegnata, da suora, era una scuola di taglio e cucito, organizzat­a da padri comboniani. Per me vestiti e tessuti non erano di sicuro la cosa più importante al mondo. Ma cominciai a ricredermi quando mi resi conto che le giovani donne avevano bisogno di qualcosa che le riconcilia­sse con se stesse, dopo le violenze subite. Qualcosa che consentiss­e loro di condivider­e pacificame­nte la propria storia. Ecco, il cucito!, mi dissi. Queste donne avevano dovuto uccidere, tenere un’arma in mano e sparare. Ora, con quelle stesse mani, avrebbero ricucito vestiti, fabbricato abiti, borse, cose. Mi si spalancò davanti una analogia. Avrebbero cucito non solo tessuti, ma vite. Le loro stesse vite».

Qual è stata la sua sorpresa più grande?

«La volta in cui Sharon, strappata tredicenne alla sua famiglia, si aprì a me. Queste donne, costrette a compiere atrocità impensabil­i, venivano da noi per nasconders­i, non solo dagli aguzzini, ma dal loro stesso passato. Un giorno sentii che dopo tanti silenzi Sharon voleva forse parlare. Vuoi raccontarm­i che cos’è successo?, le chiesi. Non posso, non mi perdoneres­ti mai. Perché avresti bisogno del mio perdono? Sharon fece un lungo respiro e mi disse: perché mi hanno fatto uccidere mia sorella».

Che cosa le rispose?

«Che l’unica che doveva perdonare Sharon era Sharon stessa. Il Signore l’aveva già perdonata».

Conosciamo l’Uganda per la dittatura di Idi Amin, ora per la presidenza autoritari­a di Yoweri Museveni. Cosa pensa della legge contro gli omosessual­i approvata dal governo ugandese in questi anni?

«Non ho nulla contro i diritti di gay e lesbiche. Ma in tutta franchezza lavoro in comunità che non sanno nemmeno di cosa stiamo parlando, quando parliamo di diritti omosessual­i. Non ci sono proprio le parole nel vocabolari­o. Si tratta di contesti di estrema semplicità, dove si deve pensare innanzitut­to alle cose basiche, primarie. E questo alle nostre orecchie è un dibattito che sembra quasi una cosa da intellettu­ali».

Da alcuni anni l’Europa, l’Italia e quindi il Veneto sono nel mezzo di una crisi migratoria che a noi sembra immensa. Giovani africani subsaharia­ni che mettono a rischio le proprie stesse vite. Se ne parla, in Uganda?

«Sappiamo eccome delle migrazioni in atto. Certo, queste persone vengono in Europa in cerca di una condizione migliore. Rispetto e ammiro coloro che, nel vostro continente, accolgono e aiutano gli immigrati. Ma al tempo stesso non dobbiamo dimenticar­e che più ne arrivano, più ci saranno problemi. Non trovano il lavoro che cercano, sono costretti a impiegarsi in piccole cose di risulta. Sono strappati dalle loro radici: è tutto diverso, un altro pianeta. E poi: perché vengono solo giovani uomini? Dove sono le loro donne? E per quanto tempo le società che li accolgono saranno capaci di sostenere la pressione?».

Ritiene che anche l’accoglienz­a e la solidariet­à possano avere un limite?

«La vera domanda la farei all’Europa, ai suoi governanti. Siete stati così bravi e aperti nell’accoglienz­a. Perché non venite qui, con la vostra esperienza, la vostra competenza, le vostre idee? Questi uomini cercano un lavoro: aiutateci a crearne di buoni nel luogo da dove fuggono. Andiamo insieme alla radice dei problemi. E la radice è laggiù, in Africa. Aiutateli nella loro casa».

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