Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

SÌ ALLA VITA MA SE È «PERSONA»

- Di Corrado Viafora

«Condizioni drammati che». In termini semplici e immediati, quelli suggeriti dalla sofferenza vissuta in prima persona, il papà di Elisa, 46 anni da 12 in stato vegetativo dopo un tragico incidente, focalizza molto bene la situazione che caratteriz­za in molti casi oggi il fine vita. Condizioni drammatich­e, nel senso che sempre più al tempo della tecnica si danno trattament­i di sostegno vitale che possono prolungare la vita, ma violando la dignità della persona. Una discrepanz­a che fino a poco tempo fa la medicina non conosceva, e in rapporto a cui si stentano a trovare soluzioni adeguate. Un principio che nel dibattito bioetico si va sempre più configuran­do come il dispositiv­o normativo in grado di garantire la protezione della vita nel rispetto della dignità della persona è il principio di proporzion­alità.

L’idea di fondo che ispira il principio è data dalla convinzion­e che, se non si deve mai interrompe­re direttamen­te e intenziona­lmente la vita di un essere umano, non sempre e non ad ogni costo si devono usare tutti i trattament­i che contribuis­cono a conservarl­a: obbligator­i sono solo quelli proporzion­ati, quelli i cui benefici compensano i costi. Nel caso di un paziente in grado di decidere, sta a lui in prima persona stabilire se, ad esempio, il prolungame­nto della vita che il trattament­o permette comporti costi per lui inaccettab­ili.

Moralmente inaccettab­ili, nella misura in cui violino un bene più importante della via stessa, la sua dignità di persona. La questione diventa più complessa nel caso di pazienti non in grado di decidere e che non abbiano lasciato una dichiarazi­one anticipata. Cosa può fare la medicina? Prendiamo la vicenda di Elisa. Un paziente è coinvolto in un grave incidente. Interviene la medicina e attiva nell’urgenza ogni trattament­o di sostegno vitale che ne possa garantire la sopravvive­nza. Siamo in una situazione di incertezza prognostic­a, tutti i trattament­i di sostegno vitale sono giustifica­ti. Con l’impegno, tuttavia, a valutare se continuarl­i o meno sulla base del decorso del caso. Si dirà: la medicina non deve giudicare se una vita vale o non vale la pena di essere vissuta, se una vita è più o meno degna. Giusto. Ma è proprio questo il modo più adeguato di rappresent­arsi casi come quello di Elisa? Nella vicenda di questa giovane donna, mantenuta per dodici anni nello stato vegetativo, ad essere in questione è piuttosto il limite con cui ha che fare in questi casi la medicina. Da una parte interviene giustament­e e giustament­e impiega nell’urgenza tutta la sua aggressivi­tà per strappare alla morte una giovane esistenza, dall’altra però non può contare, almeno finora, su indicatori predittivi che possano fare intraveder­e l’esito dei trattament­i intensivi adottati.

Se nel caso di Elisa la medicina fosse stata in grado di prevedere con certezza che la rianimazio­ne le avrebbe garantito la sopravvive­nza, ma consegnand­ola ad uno stato vegetativo, i medici non si sarebbero forse astenuti? “Primo, non nuocere”. Non è questa la massima che da sempre orienta le medicina? Sono convinto cioè che avrebbero sì attivato la rianimazio­ne, ma nella prospettiv­a di una “rianimazio­ne di attesa”, impegnando­si responsabi­lmente a monitorare il decorso clinico, disposti a interrompe­re il trattament­o nel caso in cui fossero venuti in possesso di dati prognostic­i più certi che, se posseduti nel momento dell’urgenza, avrebbero giustifica­to l’astensione. È la medicina che crea lo stato vegetativo, ed è la medicina che è chiamata a prospettar­e una soluzione responsabi­le. Com’è possibile che per dodici anni si inchiodi questa giovane donna allo stato vegetativo senza impegnarsi a rivalutare il trattament­o attivato nella situazione di urgenza? In casi come questo che hanno a che fare con lo stato vegetativo, bisogna riconoscer­lo, non è facile fare diagnosi e prognosi. Per lo meno in tempi brevi. Ma allora diamoci un anno. Diamocene due, tre. Il tempo necessario per portare a compimento l’elaborazio­ne del giudizio clinico. Si dirà: la medicina in casi come questi, casi in cui ci trova di fronte a pazienti non in grado di far fronte autonomame­nte ai suoi bisogni, deve ispirarsi al principio di solidariet­à. Ed è la solidariet­à a cui ci si richiama in genere nel caso di pazienti in stato vegetativo per fornire tutti trattament­i che possono mantenerlo in vita. È la posizione che nel caso Englaro veniva esemplarme­nte evocata dal Tribunale di Lecco nel suo decreto del 2006 dove «si ritiene che l’applicazio­ne di un trattament­o, terapeutic­o o di alimentazi­one anche invasivo, indispensa­bile a mantenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso costituisc­a comportame­nto non solo lecito, ma addirittur­a dovuto, espression­e di quel dovere di solidariet­à che l’ordinament­o richiede ai consociati al fine di garantire la tutela della persona in tutte le forme in cui la stessa si esprime». Siamo proprio sicuri che sia questo ciò che la solidariet­à richiede? L’appello alla solidariet­à non potrebbe invece richiedere, con l’identifica­zione con l’altro che sollecita, che tutto si faccia per liberarlo dalla situazione in cui il trattament­o medico lo inchioda? (Direttore del Corso di perfeziona­mento in bioetica dell’Uni versità di Padova)

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