Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

LA SOCIETÀ DELLA PASTICCA

- Di Massimiano Bucchi

«M orire per una pastic ca». Questa la sintesi che in questi giorni molti mezzi di informazio­ne hanno fatto della tragica fine di una sedicenne vittima di un’overdose di ecstasy. Una sintesi che è lo specchio altrettant­o tragico di una società che non vuole guardare in faccia i propri problemi. Perché nessuno muore davvero «per una pasticca», salvo, casomai, chi assume inconsapev­olmente un farmaco che poi risulta contraffat­to o letale. Mentre nel caso in questione- non nuovo in Veneto - la pasticca non è purtroppo che l’ultimo drammatico anello di una catena che fingiamo di poter ignorare. Ciò con cui non vogliamo fare i conti è una cultura in cui lo «sballo controllat­o» è divenuto la regola anziché l’eccezione, un’attività di routine per il fine settimana come andare al cinema o a mangiare la pizza. Tanto che lo si programma, e a differenza di qualche decennio fa chi assume certe sostanze non si sente certo un tossico: vedere per credere i dati sulla cosiddetta «epidemia di oppiacei», in larga misura regolarmen­te prescritti dai medici, negli Usa, dove le morti per overdose sono raddoppiat­e. E non serve a molto puntare il dito contro «i ragazzi». Quella che non vogliamo guardare in faccia è una società in cui ogni momento, ogni serata, per i giovani così come per molti gli adulti, deve sempre essere speciale.

Edeve sempre essere memorabile, pronta per essere postata e condivisa sui social in modo da suscitare l’ammirazion­e e l’invidia degli amici. Dove l’eccesso è divenuto un diritto, come dimostra lo scherno e la rivolta verso quei sindaci che tentano vanamente di contenere, magari dopo le tre o le quattro del mattino, l’ubriachezz­a molesta nelle proprie piazze.

Quella che non vogliamo vedere è una società in cui comprare un romanzo o vedere uno spettacolo costa sempre troppo, ma i soldi per un aperitivo o una pasticca si trovano sempre. In cui i genitori di famiglie normali, anzi normalissi­me (così le descrivono le cronache) trovano normale, anzi normalissi­mo, non sapere dove si trovino i figli minorenni a notte fonda, magari illusi di essere con loro in contatto solo perché gli hanno messo in tasca un telefonino. Non è questione di moralismo, né di trovare alibi per le responsabi­lità personali. Responsabi­lità che restano centrali, tanto più in una società come la nostra in cui ciascuno ritiene (o quantomeno si illude) di sapere da sé come sia meglio vivere, e di mantenere sempre, anche durante lo sballo, il controllo sulla propria vita e salute. Ma il primo passo per affrontare problemi così gravi è cominciare a chiamarli con il loro nome, anziché nasconderl­i dietro slogan assolutori.

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