Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
LA SOCIETÀ DELLA PASTICCA
«M orire per una pastic ca». Questa la sintesi che in questi giorni molti mezzi di informazione hanno fatto della tragica fine di una sedicenne vittima di un’overdose di ecstasy. Una sintesi che è lo specchio altrettanto tragico di una società che non vuole guardare in faccia i propri problemi. Perché nessuno muore davvero «per una pasticca», salvo, casomai, chi assume inconsapevolmente un farmaco che poi risulta contraffatto o letale. Mentre nel caso in questione- non nuovo in Veneto - la pasticca non è purtroppo che l’ultimo drammatico anello di una catena che fingiamo di poter ignorare. Ciò con cui non vogliamo fare i conti è una cultura in cui lo «sballo controllato» è divenuto la regola anziché l’eccezione, un’attività di routine per il fine settimana come andare al cinema o a mangiare la pizza. Tanto che lo si programma, e a differenza di qualche decennio fa chi assume certe sostanze non si sente certo un tossico: vedere per credere i dati sulla cosiddetta «epidemia di oppiacei», in larga misura regolarmente prescritti dai medici, negli Usa, dove le morti per overdose sono raddoppiate. E non serve a molto puntare il dito contro «i ragazzi». Quella che non vogliamo guardare in faccia è una società in cui ogni momento, ogni serata, per i giovani così come per molti gli adulti, deve sempre essere speciale.
Edeve sempre essere memorabile, pronta per essere postata e condivisa sui social in modo da suscitare l’ammirazione e l’invidia degli amici. Dove l’eccesso è divenuto un diritto, come dimostra lo scherno e la rivolta verso quei sindaci che tentano vanamente di contenere, magari dopo le tre o le quattro del mattino, l’ubriachezza molesta nelle proprie piazze.
Quella che non vogliamo vedere è una società in cui comprare un romanzo o vedere uno spettacolo costa sempre troppo, ma i soldi per un aperitivo o una pasticca si trovano sempre. In cui i genitori di famiglie normali, anzi normalissime (così le descrivono le cronache) trovano normale, anzi normalissimo, non sapere dove si trovino i figli minorenni a notte fonda, magari illusi di essere con loro in contatto solo perché gli hanno messo in tasca un telefonino. Non è questione di moralismo, né di trovare alibi per le responsabilità personali. Responsabilità che restano centrali, tanto più in una società come la nostra in cui ciascuno ritiene (o quantomeno si illude) di sapere da sé come sia meglio vivere, e di mantenere sempre, anche durante lo sballo, il controllo sulla propria vita e salute. Ma il primo passo per affrontare problemi così gravi è cominciare a chiamarli con il loro nome, anziché nasconderli dietro slogan assolutori.