Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
LA SCUOLA CHE SI INNOVA
Dall’anno prossimo in cento scuole superiori d’Italia (ma solo in una classe per ogni scuola) partirà la sperimentazione dei cosiddetti «licei brevi», che peraltro non saranno solo licei: un corso di studio di quattro anni, parificato a quello quinquennale (che consentirà quindi l’accesso all’università). Già un liceo veneto (il Brocchi di Bassano) si è proposto. E all’Anti di Villafranca tale sperimentazione è già al terzo anno. Ma c’è da sperare che siano molti i dirigenti scolastici a proporsi: la riflessione sui nuovi progetti, anche quando non realizzati, potrebbe fare bene a tutto il sistema. La scommessa è significativa. In questione non c’è solo la durata: che, in molti paesi, è effettivamente più breve, anche se con modulazioni diversificate (spesso sono più lunghe quelle che per noi sono le scuole medie, e più brevi le superiori). Dietro c’è una forte spinta all’innovazione sui contenuti: con rimodulazione dei percorsi, introduzione di metodologie laboratoriali, l’obbligo di offrire l’insegnamento di almeno una disciplina in una lingua straniera negli ultimi due anni, e modalità di alternanza (sarebbe meglio dire di interconnessione) scuola-lavoro più accentuate. Le scuole che si proporranno saranno scelte in base a questi criteri. Il punto più debole è che non cambiano programmi e modalità di verifica finali: ma questo potrebbe essere l’esito finale della sperimentazione.
Certo, fa riflettere che ci si affidi a una programmazione locale, dal basso, delle novità da introdurre – che non ci sia una proposta, di fondo. Ma forse è bene così. Di innovazione c’è molto bisogno, in una scuola, quella superiore, che soffre più della scuola dell’obbligo o dell’università di una crisi di sensatezza crescente, che produce in troppi casi insegnanti demotivati e studenti svogliati, che non sanno bene perché sono lì, e a fare cosa. E il fatto che non si tratti dell’ennesima riforma, ma di una meditata sperimentazione, che peraltro ha radici in quattro o cinque ministri fa, attesta la serietà del metodo: cosa c’è di più scientifico che far svolgere progetti paralleli, per poi compararne i risultati, addirittura all’interno degli stessi plessi scolastici, per vedere quale ha dato risultati migliori? Certo, non è la lunghezza che fa la qualità e la sensatezza dell’insegnamento, né in un senso né nell’altro. Abbreviare il ciclo di studi potrebbe andare a discapito di entrambe, paventano molti. Ma è altrettanto vero che il sistema attuale soffre di problemi evidenti. Se bastasse il tempo, la ricetta per migliorare la qualità della scuola ce l’avremmo bell’e pronta: allungare la durata degli studi… Ma non è così: i problemi attuali della scuola si aggraverebbero, anziché alleviarsi. Segno che le criticità stanno altrove: nel cosa e nel come, non nel quanto. Il che testimonia a favore di una riflessione e di una sperimentazione innovativa, alternativa all’attuale sistema. Bisognerebbe andare addirittura oltre. Non ha più nessun senso – nel mondo di oggi – un sistema rigido che scandisce i percorsi di vita: con 13 (o 18, includendo i due livelli dell’università) anni consecutivi di studio, poi, diciamo, una quasi cinquantina di lavoro, e infine venti o più di pensione. Oggi il lavoro ha – e avrà sempre di più – bisogno di aggiornamento continuo, con periodi di formazione inframmezzati al percorso lavorativo. La terza età è sempre di più – anche perché siamo mediamente più in buona salute – un periodo in cui si continuano a svolgere attività paralavorative e anche di aggiornamento. E la scuola, sempre di più, scopre che si può avvantaggiare dall’essere inframmezzata da momenti lavorativi o da altri tipi di esperienza, migliorando sia la qualità dello studio successivo, sia la comprensione del mondo del lavoro. Sempre più, in ogni caso, si va verso percorsi meno lineari che in passato, con uscite e rientri, esperienze diversificate, traiettorie più individualizzate, che prevedono istituzioni scolastiche più duttili e capaci di fungere da polo di riferimento. Quello che è certo, comunque, è che c’è una forte spinta (non tanto del mercato, ma degli individui stessi, incluso chi nella scuola ci vive, come docente e come studente) a non lasciare le cose come stanno. Che sarebbe la peggiore delle politiche. Sperimentando, e comparando i risultati raggiunti dalle diverse classi si potranno trarre – laicamente, e con qualche dato in più, rispetto alla discussione preventiva, spesso ideologica e schierata su posizioni di difesa aprioristica dello status quo – le necessarie conclusioni.