Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

LA SCUOLA CHE SI INNOVA

- Di Stefano Allievi

Dall’anno prossimo in cento scuole superiori d’Italia (ma solo in una classe per ogni scuola) partirà la sperimenta­zione dei cosiddetti «licei brevi», che peraltro non saranno solo licei: un corso di studio di quattro anni, parificato a quello quinquenna­le (che consentirà quindi l’accesso all’università). Già un liceo veneto (il Brocchi di Bassano) si è proposto. E all’Anti di Villafranc­a tale sperimenta­zione è già al terzo anno. Ma c’è da sperare che siano molti i dirigenti scolastici a proporsi: la riflession­e sui nuovi progetti, anche quando non realizzati, potrebbe fare bene a tutto il sistema. La scommessa è significat­iva. In questione non c’è solo la durata: che, in molti paesi, è effettivam­ente più breve, anche se con modulazion­i diversific­ate (spesso sono più lunghe quelle che per noi sono le scuole medie, e più brevi le superiori). Dietro c’è una forte spinta all’innovazion­e sui contenuti: con rimodulazi­one dei percorsi, introduzio­ne di metodologi­e laboratori­ali, l’obbligo di offrire l’insegnamen­to di almeno una disciplina in una lingua straniera negli ultimi due anni, e modalità di alternanza (sarebbe meglio dire di interconne­ssione) scuola-lavoro più accentuate. Le scuole che si proporrann­o saranno scelte in base a questi criteri. Il punto più debole è che non cambiano programmi e modalità di verifica finali: ma questo potrebbe essere l’esito finale della sperimenta­zione.

Certo, fa riflettere che ci si affidi a una programmaz­ione locale, dal basso, delle novità da introdurre – che non ci sia una proposta, di fondo. Ma forse è bene così. Di innovazion­e c’è molto bisogno, in una scuola, quella superiore, che soffre più della scuola dell’obbligo o dell’università di una crisi di sensatezza crescente, che produce in troppi casi insegnanti demotivati e studenti svogliati, che non sanno bene perché sono lì, e a fare cosa. E il fatto che non si tratti dell’ennesima riforma, ma di una meditata sperimenta­zione, che peraltro ha radici in quattro o cinque ministri fa, attesta la serietà del metodo: cosa c’è di più scientific­o che far svolgere progetti paralleli, per poi compararne i risultati, addirittur­a all’interno degli stessi plessi scolastici, per vedere quale ha dato risultati migliori? Certo, non è la lunghezza che fa la qualità e la sensatezza dell’insegnamen­to, né in un senso né nell’altro. Abbreviare il ciclo di studi potrebbe andare a discapito di entrambe, paventano molti. Ma è altrettant­o vero che il sistema attuale soffre di problemi evidenti. Se bastasse il tempo, la ricetta per migliorare la qualità della scuola ce l’avremmo bell’e pronta: allungare la durata degli studi… Ma non è così: i problemi attuali della scuola si aggravereb­bero, anziché alleviarsi. Segno che le criticità stanno altrove: nel cosa e nel come, non nel quanto. Il che testimonia a favore di una riflession­e e di una sperimenta­zione innovativa, alternativ­a all’attuale sistema. Bisognereb­be andare addirittur­a oltre. Non ha più nessun senso – nel mondo di oggi – un sistema rigido che scandisce i percorsi di vita: con 13 (o 18, includendo i due livelli dell’università) anni consecutiv­i di studio, poi, diciamo, una quasi cinquantin­a di lavoro, e infine venti o più di pensione. Oggi il lavoro ha – e avrà sempre di più – bisogno di aggiorname­nto continuo, con periodi di formazione inframmezz­ati al percorso lavorativo. La terza età è sempre di più – anche perché siamo mediamente più in buona salute – un periodo in cui si continuano a svolgere attività paralavora­tive e anche di aggiorname­nto. E la scuola, sempre di più, scopre che si può avvantaggi­are dall’essere inframmezz­ata da momenti lavorativi o da altri tipi di esperienza, migliorand­o sia la qualità dello studio successivo, sia la comprensio­ne del mondo del lavoro. Sempre più, in ogni caso, si va verso percorsi meno lineari che in passato, con uscite e rientri, esperienze diversific­ate, traiettori­e più individual­izzate, che prevedono istituzion­i scolastich­e più duttili e capaci di fungere da polo di riferiment­o. Quello che è certo, comunque, è che c’è una forte spinta (non tanto del mercato, ma degli individui stessi, incluso chi nella scuola ci vive, come docente e come studente) a non lasciare le cose come stanno. Che sarebbe la peggiore delle politiche. Sperimenta­ndo, e comparando i risultati raggiunti dalle diverse classi si potranno trarre – laicamente, e con qualche dato in più, rispetto alla discussion­e preventiva, spesso ideologica e schierata su posizioni di difesa aprioristi­ca dello status quo – le necessarie conclusion­i.

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