Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
«Quel milione e mezzo resti a lei»: la maîtresse vince anche in appello
«Non è il frutto dello sfruttamento della prostituzione»: cade la tesi di procura e Finanza
TREVISO La maîtresse la spunta anche in appello. Il suo tesoretto da 1 milione e 500 mila euro non è provento di attività illecita, o quanto meno la procura non è riuscita a dimostrarlo, e quindi resta a lei. Così i giudici veneziani hanno rigettato il ricorso della procura trevigiana sulla misura di prevenzione patrimoniale e la conseguente confisca, a tutela dello Stato, dei beni di Bruna Zandonà.
Il «tesoretto»
Dopo quella in primo grado, l’ex tenutaria porta a casa la vittoria anche in appello, dove i giudici hanno accolto in pieno la tesi difensiva formulata dell’avvocato Stefano Pietrobon: «Abbiamo dimostrato, con la documentazione prodotta, che quei beni non sono frutto di attività illecita». Eppure sui suoi soldi, procura e guardia di finanza avevano messo gli occhi da tempo. In città tutti hanno sempre saputo qual era la professione di Bruna Zandonà, della quale del resto la 65enne non ha mai fatto mistero. Ma nel 2010 la sua attività di maîtresse era stata smascherata - a livello nazionale - da un servizio de «Le Iene», che avevano mandato nella sua casa di via Sant’Agostino, nel pieno centro storico di Treviso, una giovane che fingeva di volersi prostituire. E Bruna le aveva spiegato cosa avrebbe dovuto fare, finendo sotto inchiesta e poi a processo con l’accusa di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, processo conclusosi con una condanna a 1 anno e 6 mesi.
I passi successivi
Ed è dopo la condanna che la guardia di finanza, coordinata dal pubblico ministero Mara Giovanna De Donà, ha messo il naso nelle sue proprietà, immobili e mobili, per accertare quali fossero provento di quell’attività illecita. Alla fine le è arrivato un conto, salatissimo, con la misura di prevenzione che ha disposto il sequestro di alcuni appartamenti e dei suoi conti correnti per un valore di 1 milione e 500 mila euro. Ma Zandonà si è subito opposta: «Quei beni non sono provento degli errori che ho commesso in passato e per i quali ho già pagato». E i giudici le hanno dato ragione, in primo grado e anche in appello respingendo pure l’ipotesi che, se contanti e appartamenti non sono il frutto dello sfruttamento della prostituzione, lo sarebbero dell’evasione fiscale sui guadagni ottenuti dalla stessa. Per i giudici d’appello quei beni «esulano dal contesto delittuoso». Quando l’avvocato Pietrobon le ha comunicato la sentenza, Bruna Zandonà ha tirato un sospiro di sollievo. Ma non vuole commentare: da anni si è ritirata e preferisce tenere un basso profilo. Ora la procura generale potrebbe presentare un ricorso in Cassazione, ma è difficile pensare che dopo due verdetti negativi la battaglia continui.
La strategia
Che la strada fosse in salita, lo sapevano già, in procura. È la prima volta, infatti, che in provincia la misura di prevenzione viene applicata a una maitresse. Prima di lei era toccato solo a famiglie di giostrai, gli Hudorovic e i Baricevic. A Ercole, Adriano «Stanko» e Bogdan Hudorovic di Paese, sono stati sequestrati un terreno a Quinto di Treviso, conti correnti e una decina di auto per oltre 150 mila euro. Al figlio di «Stanko», Devid, difeso dall’avvocato Francesco Murgia, è toccato il sequestro di una casa a Paese, valore oltre 100 mila euro, sulla quale pende una richiesta di confisca.
È stata invece confiscata, in primo e in secondo grado, la casa di Stjepan Baricevic e Fortunata Levak, con vari precedenti e genitori di Ivan, noto come «il re delle truffe» per le decine di denunce ricevute su vendite fittizie di auto e camper: una villetta a Santa Bona e il terreno circostante, alcune auto e in polizze di pegno del valore di oltre 500 mila euro. La famiglia, difesa dall’avvocato Andrea Zambon, ha presentato ricorso in Cassazione.