Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
I PERICOLI DELLA FORZA CENTRIFUGA
Secessione significa separazione, defezione, ritiro, allontanamento. Presuppone qualcosa di unito, che si spezza. Senza voler mettere sullo stesso piano fenomeni diversi tra loro, per forma e sostanza, è la cronaca tuttavia a porci sotto gli occhi, negli stessi giorni, il caso di Sappada e quello della Catalunia, quello di Mestre/Venezia e il referendum autonomista del lombardo-veneto, Belluno e la Brexit.
Fenomeni diversi, appunto: che appartengono tuttavia alla medesima specie – quella che raccoglie e ingloba tutto ciò che spinge a una coazione centrifuga. Che è sempre più diffusa, e non solo in termini di geopolitica.
Dietro ci sono vari fenomeni, anch’essi di diversa profondità. Ragioni storiche, reali o ricostruite a posteriori.
Ragioni economiche, soprattutto (e, spesso, buone ragioni): legate a sperequazioni e sprechi, a sbilanciamenti tra produzione e distribuzione delle risorse. Un motore fondamentale di questi processi è la visibilità che questo crea alle elite politiche che li propongono. In maniera speculare alla rappresentanza (e alla chiusura) etnica o religiosa che spesso pretendono di combattere negli altri. Il formarsi di partiti, interessi, rappresentanze culturali, intorno ai localismi e ai regionalismi, corrisponde infatti al medesimo fenomeno che riscontriamo nell’invenzione di tutti gli etnicismi, le forme di orgoglio razziale, di fondamentalismo religioso, e di rappresentanza delle minoranze.
Non esisti? Inventati di rappresentare i neri, gli ispanici, un qualche tipo di aborigeni, una «identità-col-trattino» (italo-americani, sino-italiani…), una qualunque minoranza religiosa (che, se si è persa nella secolarizzazione, è facile reinventare intorno a un simbolo qualsiasi, anche vestimentario), ed esisterai, mobiliterai energie, troverai finanziatori, creerai una rappresentanza politica, costruirai lucrose carriere, ti spartirai risorse. Quello che un secolo fa si costruiva intorno alle classi o agli interessi di ceto, oggi si costruisce intorno alle appartenenze etniche e alle identità religiose. Con una differenza sostanziale: classi e ceti avevano una effettiva comunanza di situazione e di interessi da difendere, etnicismi e identitarismi la presumono soltanto. Ma funziona ugualmente: se dico di rappresentare gli afrodiscendenti, i musulmani, i veneti, non è tanto importante che sia vero (che io gliel’abbia chiesto e loro me ne abbiano dato esplicitamente il mandato): è sufficiente che lo dica, perché produca gli effetti desiderati – una forma di profezia che si autorealizza. Si tratta solo di scegliersi (o di inventarsi) la minoranza da rappresentare, i cui (presunti) diritti rivendicare.
E’ proprio la contemporaneità dei fenomeni, tuttavia, a denunciarne la logica. I veneti vogliono stare per conto loro, per gestirsi le proprie risorse, e lo stesso i veneziani rispetto a Mestre (e viceversa): e per far questo ci si inventano delle identità chiuse («prima i veneti»). Ma mezzo Veneto sarebbe prontissimo ad andare con il Friuli o il Trentino, incluso quello che confina con l’Emilia o con la Lombardia, se solo potesse: per la semplice ragione che sono regioni a statuto speciale e gestiscono più risorse (e, più che trattenersi le proprie, ricevono più trasferimenti dallo stato centrale).
Il paradosso è che – in tutto il mondo – sono le regioni e le città più aperte e cosmopolite ad essere quelle più ricche e interessanti, che attraggono più giovani e più talenti, e si sviluppano più rapidamente.
La secessione, la separazione, l’isolamento, la chiusura (e la paura che l’accompagna), è un sentiment, si direbbe oggi, quasi autoevidente, e che si vende molto bene. Incrocia tendenze sociali diffuse nella ricerca di soluzioni facili: il corrispettivo, nei modelli familiari, è il divorzio. Le cose non vanno come vorremmo? Smettiamo di cercare un accordo, e separiamoci. Con gli amici di sempre è insorto un problema? Cambiamo compagnia.
Silenziosamente, senza farcene accorgere, anche gli algoritmi dei social network producono una propensione inconsapevole all’insularità, che ci aiutano a riprodurre mettendoci in contatto con persone che la pensano come noi, e che ci fanno illudere in una società tendente all’omogeneo. Mentre non è mai stata così plurale, e lo sarà ogni giorno di più.
In un’epoca di mobilità circolari (persone diverse, nello stesso momento, entrano ed escono da una società, immigrano in essa o da essa emigrano – e vale anche per gruppi e comunità di senso), si tende dunque a chiudersi in una identità propria, ristretta, familiare – e illusoria. E’ un sogno (per altri, un incubo) e un bisogno culturale. In controtendenza con il mondo dinamico e globalizzato della produzione (l’impresa) e quello dei consumi: anche quelli dei localisti più sfegatati. E anche questa contraddizione dovrebbe dirci qualcosa, se solo ci mettessimo ad osservarla senza paraocchi ideologici.