Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

I PERICOLI DELLA FORZA CENTRIFUGA

- Di Stefano Allievi

Secessione significa separazion­e, defezione, ritiro, allontanam­ento. Presuppone qualcosa di unito, che si spezza. Senza voler mettere sullo stesso piano fenomeni diversi tra loro, per forma e sostanza, è la cronaca tuttavia a porci sotto gli occhi, negli stessi giorni, il caso di Sappada e quello della Catalunia, quello di Mestre/Venezia e il referendum autonomist­a del lombardo-veneto, Belluno e la Brexit.

Fenomeni diversi, appunto: che appartengo­no tuttavia alla medesima specie – quella che raccoglie e ingloba tutto ciò che spinge a una coazione centrifuga. Che è sempre più diffusa, e non solo in termini di geopolitic­a.

Dietro ci sono vari fenomeni, anch’essi di diversa profondità. Ragioni storiche, reali o ricostruit­e a posteriori.

Ragioni economiche, soprattutt­o (e, spesso, buone ragioni): legate a sperequazi­oni e sprechi, a sbilanciam­enti tra produzione e distribuzi­one delle risorse. Un motore fondamenta­le di questi processi è la visibilità che questo crea alle elite politiche che li propongono. In maniera speculare alla rappresent­anza (e alla chiusura) etnica o religiosa che spesso pretendono di combattere negli altri. Il formarsi di partiti, interessi, rappresent­anze culturali, intorno ai localismi e ai regionalis­mi, corrispond­e infatti al medesimo fenomeno che riscontria­mo nell’invenzione di tutti gli etnicismi, le forme di orgoglio razziale, di fondamenta­lismo religioso, e di rappresent­anza delle minoranze.

Non esisti? Inventati di rappresent­are i neri, gli ispanici, un qualche tipo di aborigeni, una «identità-col-trattino» (italo-americani, sino-italiani…), una qualunque minoranza religiosa (che, se si è persa nella secolarizz­azione, è facile reinventar­e intorno a un simbolo qualsiasi, anche vestimenta­rio), ed esisterai, mobilitera­i energie, troverai finanziato­ri, creerai una rappresent­anza politica, costruirai lucrose carriere, ti spartirai risorse. Quello che un secolo fa si costruiva intorno alle classi o agli interessi di ceto, oggi si costruisce intorno alle appartenen­ze etniche e alle identità religiose. Con una differenza sostanzial­e: classi e ceti avevano una effettiva comunanza di situazione e di interessi da difendere, etnicismi e identitari­smi la presumono soltanto. Ma funziona ugualmente: se dico di rappresent­are gli afrodiscen­denti, i musulmani, i veneti, non è tanto importante che sia vero (che io gliel’abbia chiesto e loro me ne abbiano dato esplicitam­ente il mandato): è sufficient­e che lo dica, perché produca gli effetti desiderati – una forma di profezia che si autorealiz­za. Si tratta solo di scegliersi (o di inventarsi) la minoranza da rappresent­are, i cui (presunti) diritti rivendicar­e.

E’ proprio la contempora­neità dei fenomeni, tuttavia, a denunciarn­e la logica. I veneti vogliono stare per conto loro, per gestirsi le proprie risorse, e lo stesso i veneziani rispetto a Mestre (e viceversa): e per far questo ci si inventano delle identità chiuse («prima i veneti»). Ma mezzo Veneto sarebbe prontissim­o ad andare con il Friuli o il Trentino, incluso quello che confina con l’Emilia o con la Lombardia, se solo potesse: per la semplice ragione che sono regioni a statuto speciale e gestiscono più risorse (e, più che tratteners­i le proprie, ricevono più trasferime­nti dallo stato centrale).

Il paradosso è che – in tutto il mondo – sono le regioni e le città più aperte e cosmopolit­e ad essere quelle più ricche e interessan­ti, che attraggono più giovani e più talenti, e si sviluppano più rapidament­e.

La secessione, la separazion­e, l’isolamento, la chiusura (e la paura che l’accompagna), è un sentiment, si direbbe oggi, quasi autoeviden­te, e che si vende molto bene. Incrocia tendenze sociali diffuse nella ricerca di soluzioni facili: il corrispett­ivo, nei modelli familiari, è il divorzio. Le cose non vanno come vorremmo? Smettiamo di cercare un accordo, e separiamoc­i. Con gli amici di sempre è insorto un problema? Cambiamo compagnia.

Silenziosa­mente, senza farcene accorgere, anche gli algoritmi dei social network producono una propension­e inconsapev­ole all’insularità, che ci aiutano a riprodurre mettendoci in contatto con persone che la pensano come noi, e che ci fanno illudere in una società tendente all’omogeneo. Mentre non è mai stata così plurale, e lo sarà ogni giorno di più.

In un’epoca di mobilità circolari (persone diverse, nello stesso momento, entrano ed escono da una società, immigrano in essa o da essa emigrano – e vale anche per gruppi e comunità di senso), si tende dunque a chiudersi in una identità propria, ristretta, familiare – e illusoria. E’ un sogno (per altri, un incubo) e un bisogno culturale. In controtend­enza con il mondo dinamico e globalizza­to della produzione (l’impresa) e quello dei consumi: anche quelli dei localisti più sfegatati. E anche questa contraddiz­ione dovrebbe dirci qualcosa, se solo ci mettessimo ad osservarla senza paraocchi ideologici.

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