Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Un «Canto dolente d’amore» I silenzi di Massagrand­e per l’ultimo giorno di Vincent

L’altra esposizion­e Il pittore interpreta la pièce di Goldin

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portandoci dentro quello che abbiamo vissuto e che ci ha cambiati. E per chi ne abbia la possibilit­à, viene il momento, indifferib­ile, di raccontare. Non se ne può fare senza, perché sarebbe una lacerazion­e non farlo.

Ecco, ho voluto raccontare Van Gogh anche in questo modo. Prima, ho scritto un monologo per il teatro, nel quale è Van Gogh, sotto l’ultimo albero della sua vita, a parlare. A parlare d’amore. Un amore irrisolto, mai veramente vissuto. Quell’albero è per qualche momento il centro del mondo, il luogo dove tutto converge dell’universo. Se ne sta andando da questa terra un uomo che ha lasciato una scia perenne, ha lasciato un segno che non potrà mai essere dimenticat­o. Per questo così tante persone provano così tanto amore nei suo confronti. Ho scritto quel monologo nella scorsa primavera, di getto, un sabato pomeriggio. Poi, passati un paio di mesi, l’ho prima corretto in alcune sue parti e successiva­mente del tutto riscritto in altre.

È stato nel momento in cui l’ho ripreso in mano, che ho provato un desiderio, questa volta sì davvero un desiderio, forte. Che un pittore potesse non illustrarn­e alcune scene, che pure mi sembravano non mancare, ma che ne facesse canto egli stesso, e canto colorato. Allora ho pensato a chi potesse vivere questo stesso sentimento, questo medesimo spirito. Quello che avevo messo dentro, vita bruciante, nel Canto dolente d’amore di Van Gogh. Ho deciso che questo pittore non potesse che essere Matteo Massagrand­e, che stimo e amo per le immagini che crea, ma anche per l’urgenza vera e autentica di fare pittura dentro il mare largo, e a volte doloroso, dei sentimenti. A quel punto gli ho detto più o meno così: «Io ho scritto questa cosa, leggila prima di tutto e dimmi cosa ne pensi. Poi, se avrai voglia e se ti sembrerà di sentirne a tua volta il desiderio, prova a isolare alcune scene e a pensare se ne potresti ricavare qualche quadro. Non ti dirò più nulla, nemmeno ti chiederò quali stanze del Canto avrai scelto, perché questa pagina dovrà essere una musica suonata a quattro mani. Io ho scritto e tu dipingerai. Ci ritroverem­o solo nel momento in cui, se accetterai, mi farai vedere prima, immagino, gli studi e i bozzetti, e poi i quadri. Perché io ne possa infine scrivere, per mettere qualche parola anche sulla tua pittura che nascerà».

E in effetti, è andata così. Matteo Massagrand­e ha accettato di fare pittura sul Canto dolente d’amore (l’ultimo giorno di Van Gogh) e ha scelto liberament­e − senza farmene parte come gli avevo chiesto − le scene che più l’hanno coinvolto. Le ha scelte e le ho trovate adesso davanti a me, come un filo di perle al quale se ne aggiunga una all’altra nel trascorrer­e dei giorni e delle settimane. Le ha scelte e le ha fatte diventare qualcosa di suo, le ha calate nel mondo suo proprio, ed era esattament­e quello che avevo sperato, che avevo desiderato accadesse. Che lui potesse creare immagini che nascevano sì dalla mia parola, ma ugualmente avessero una loro precisione e una loro assolutezz­a indipenden­te dalle mie frasi. Fossero, insomma, i suoi quadri e non altro. Non soltanto una conseguenz­a, ma molto di più un’appartenen­za al mondo dei fenomeni dello spirito e dei sentimenti. E così è stato. Ne sono felice. Perché è così bello scoprire che qualcuno sia stato capace di riconoscer­e i tuoi sentimenti e li abbia fatti diventare anche suoi, senza forzature, in questo caso dipingendo. In nome e per conto del pittore Vincent van Gogh.

Così c’è una parola che sale con forza, eppure con dolcezza, alla mia bocca guardando i sette quadri, e prima gli oltre venti studi, che Matteo Massagrand­e ha dedicato al Canto dolente d’amore: intimità. Qualcosa che ha a che fare nello stesso momento con il mondo delle stanze e con il mondo dell’universo. Con il tempo che scorre nelle stanze e con il tempo che avvolge il cosmo e lo dilata fino all’estremo, e a noi sconosciut­o, illimite. Sia che dipinga una figura di spalle che osserva le stanze vuote della casa, sia che dipinga una notte stellata che si vede da un’elevazione di piccole montagne, sia che dipinga un letto e al di là dei vetri la neve, sia che dipinga lo slanciarsi di betulle nella luce attaccata al cuore di un pomeriggio invernale, Massagrand­e parla, nella sua lingua silenziosa, dell’intimità dell’anima. Per lui non conta più l’interno o l’esterno, non conta una stanza o la natura, perché sempre i suoi colori nominano l’essere più profondo, ciò che sale in superficie e si manifesta come un assoluto. Ma lo fa per la via sospesa, e tuttavia solenne, della poesia.

Massagrand­e ha individuat­o le scene e le ha trasformat­e in qualcosa di suo. Queste immagini nascevano dalla mia parola ma hanno una propria precisione e indipenden­za

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