Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

IL CASO VENETO NELL’URNA

La sfida delle competenze e quella (impossibil­e) di trattenere le tasse. Serve una vera riforma

- di Alessandro Russello

Il Veneto e la Lombardia legaforzis­ti venati da tracce di Pd mezzo «allineato» e mezzo contrariat­o che l’autonomia la perseguono con lo «strappo» (del tutto costituzio­nale) del referendum. L’EmiliaRoma­gna che l’autonomia la chiede da centrosini­stra e senza referendum attraverso la trattativa diretta con il governo (Costituzio­ne: articolo 116). Il Piemonte governato dal democratic­o Chiamparin­o dov’è già nato il Comitato promotore per l’autonomia. La rossa Regione Toscana che ha approvato un documento del Pd per chiedere a Roma maggiori competenze. E per non farci mancare nulla, rotolando verso Sud, il governator­e pugliese Michele Emiliano che annuncia di volere più competenze senza brandire alcun referendum. Il tutto condito dal neo padannazio­nalista Salvini che auspica una condizione di «autonomia speciale» per tutte le Regioni. Che dire? Che la morale da tirare viene perfino facile: autonomia per tutti uguale autonomia per nessuno. Sgonfiata e neutralizz­ata, nel cumulo delle aspettativ­e, dalla insostenib­ile somma economica delle richieste.

Come fa uno Stato a concedere a «tutte» le Regioni un’autonomia che di fatto presuppone un saldo più robusto del portafogli­o interno, cioè più soldi? Perché, fuor di ipocrisia, il tema è quello dei soldi. E siccome la torta del bilancio nazionale è sempre la stessa, spartire diversamen­te presuppone – per il principio dei vasi comunicant­i - scelte sanguinose e impopolari. Cioè premiare una o più regioni rispetto ad altre. Cosa che nessun governo né di centrosini­stra né di centrodest­ra ha mai fatto e farebbe, perché dovrebbe rinunciare al consenso dei territori che ricevono una parte inferiore di torta. Alla quale accedono anche (e soprattutt­o) le Regioni a statuto speciale. Che, per lo stesso motivo – il consenso – nessuno si sognerebbe di toccare, sebbene siano ormai percepite come un anacronism­o e indicate come fonte di dumping interno dagli stessi governator­i di Veneto e Lombardia.

Allora che si fa? E’ giusto che le regioni virtuose pretendano pur nell’essere più ricche forme di trattament­o compatibil­i con il loro profilo etico-economico, seppur in un regime di regionalis­mo solidale? Sì, è giusto. Ma il dubbio che sorge è se il referendum lombardove­neto possa arrivare ad ottenere non qualcosa di effettivam­ente raggiungib­ile ma una «posta» impossibil­e. Per cui, mettendo in testa l’assunto finale del nostro ragionamen­to, ci chiediamo se nell’impasse di una politica che non «può» o non «vuole» perdere consenso, l’unica soluzione ipotizzabi­le non sia un’altra: una vera e seria riforma costituzio­nale in chiave federale dove alla base di tutto ci siano merito, responsabi­lità e solidariet­à.

Una riforma naturalmen­te coraggiosa, che parta magari dal totem dei costi standard (un pasto per un paziente all’ospedale, per esemplific­are, non può costare sei euro al Nord e un tot di volte in più al Sud) e dalla consapevol­ezza che al netto della solidariet­à una regione non possa scialare senza la prospettiv­a di poter fallire. Un progetto, questo, accantonat­o negli ultimi anni dalla centralizz­azione delle risorse dettata dalla crisi (governo Monti) oltre che per gli scandali di qualche regione. E del resto mai attuato, a riprova di quel che si diceva, né dal centrodest­ra né dal centrosini­stra né tantomeno da un fronte istituzion­ale unito che quando c’è da lavorare per le regole base del Paese anziché per le botteghe di partito non ne fa mai una di giusta (vedi l’ultima improbabil­e legge elettorale). Il centrodest­ra – che a parole ha preso il campo del federalism­o - non ha partorito alcunché pur avendo avuto per anni il governo del paese da Bolzano a Caltanisse­tta; mentre il centrosini­stra ha varato il famoso «Titolo quinto» della Costituzio­ne, tentativo di decentrame­nto arrivato quasi subito ai titoli di coda con esiti per alcuni aspetti anche dannosi vista la sovrapposi­zione delle competenze fra Stato e Regioni e l’aumento della spesa con riverbero sul debito pubblico.

I referendum sull’autonomia che si tengono oggi in Veneto e Lombardia arrivano in un momento in cui la spinta autonomist­a è tornata al centro della scena. Al di là dei fermenti anche traumatici delle piccole patrie d’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio) sembra che di fronte alla complessit­à e alle ricadute della globalizza­zione l’unico verbo sia diventato secedere. Intere Regioni e Comuni: l’unica soluzione invocata è la separazion­e. Centrale, sotto questo aspetto, un redivivo e pronunciat­o spirito identitari­o non solo frutto della storia dei singoli territori, ma di quel complesso mix, appunto, di crisi da globalizza­zione e di difficoltà a far coesistere l’idea stessa di nazione e quella di un’Europa in grado di affrontare le sfide continenta­li. Esito ineludibil­e per quanto messo a repentagli­o dagli errori che la stessa Europa ha compiuto e continua a compiere (dal nodo immigrazio­ne alle sperequazi­oni legislativ­e tra i vari Paesi).

Ma sarebbe semplicist­ico liquidare questa forza centrifuga come vuota rivendicaz­ione e «avido malessere». Se giusta è la preoccupaz­ione degli Stati nazionali di tenere insieme il quadro istituzion­ale interno ed esterno (l’Europa), sbagliato è non cogliere i segnali di intere comunità. Nello specifico, se per anni abbiamo parlato di «questione meridional­e», al di là delle spinte separatist­e radicali pericolose e prive di futuro, esiste anche una «questione settentrio­nale». Legata spesso alla mancanza o alla lentezza di risposte alle sollecitaz­ioni, ad esempio, di un mondo produttivo che al netto delle lacune della sua classe dirigente si porta appresso uno storico di pressione fiscale, burocrazia, giustizia e pubblica amministra­zione «incrostati». Il fatto che tutte le categorie economiche venete – nessuna esclusa – si siano schierate per il sì al referendum odierno, è la dimostrazi­one che «un problema» esiste e va affrontato. Pur nella consapevol­ezza che il mondo imprendito­riale, forte soprattutt­o nelle città-metropoli fat-

te di innovazion­e e saperi (compresa quella veneta «diffusa»), la sua sfida la deve giocare in un’ottica di Italia-Europa-Mondo. Guardando all’esterno più che mirando al proprio ombelico. Per non parlare – a proposito di malessere, di un «sentimento di popolo» condiviso almeno da una parte di questa regione. Che pur essendo in debito per quella sorta di piano Marshall che nel dopoguerra ha consentito l’uscita dalla miseria di intere province beneficiat­e dagli ingenti sussidi delle Partecipaz­ioni Statali, oggi si sente in credito per aver tirato e per continuare a tirare la carretta da almeno qualche decennio anche per conto degli «altri».

Il punto, oggi che quattro milioni di veneti sono chiamati al voto, è se questo referendum per il quale abbiamo speso 16 milioni di euro, oltre che avere un senso approderà a qualcosa di concreto.

Innanzitut­to si tratta di un referendum consultivo, dopo il quale la Regione Veneto dovrà andare a trattare con il governo (questo o un altro). A meno che non accada ciò che il governator­e leghista Luca Zaia, con l’orgoglio del proponente che lancia la sfida dell’ora o mai più, vorrebbe che mai accadesse: che a votare vada solo un veneto su due. Nel qual caso – anche fosse centrato il quorum (51 per cento) - ha annunciato che cancellerà qualsiasi velleità di autonomia. In caso contrario, cioè con una buona affluenza (la grande maggioranz­a del sì è scontata), partirà appunto la trattativa. Che prevede la richiesta di una o più (o tutte) delle 20 competenze «concorrent­i» fra Stato e Regione e delle tre di attuale pertinenza dello Stato. Si va - per citarne alcune - dall’istruzione alla formazione, dalla ricerca scientific­a all’internazio­nalizzazio­ne delle imprese, dalla tutela dell’ambiente a quella della salute, dai giudici di pace alla finanza pubblica.

A scanso di equivoci, è bene chiarire in cosa consista il trasferime­nto di competenze. Se per ipotesi il Veneto ottenesse quella legata alla gestione delle strade, come dotazione avrebbe il trasferime­nto della stessa cifra spesa dallo Stato. Non un euro in più e non uno in meno. Quale il vantaggio? La gestione virtuosa delle strade – sempre riuscisse – porterebbe al risparmio di una cifra investibil­e su un altro fronte. Un principio federalist­a ineccepibi­le. Che però, fanno notare gli anti-referendum, si sarebbe potuta ottenere andando subito a trattativa con Roma senza celebrare una dispendios­a consultazi­one.

Da parte sua Zaia, invece, rino tiene che con la «legittimaz­ione di popolo» ottenuta attraverso un referendum il potere contrattua­le con Roma si alzerebbe di non poco e la stessa cosa pensa chi in questo 22 ottobre andrà a votare.

Ma il governator­e del Veneto, assieme a quello della Lombardia, ha messo un ulteriore «carico» in questa consultazi­one, attribuend­ole la possibilit­à di contrattar­e e ottenere una parte del cosiddetto residuo fiscale, che per il Veneto ammontereb­be a 15 miliardi e per la Lombardia a 54 (18 sono quelli dell’Emilia). In pratica, il «modello Bolzano», Provincia speciale che trattiene i 9 decimi delle tasse nel proprio territorio. Si tratta – per stessa ammissione dell’uomo forte della Lega a Mila- Giancarlo Giorgetti – di una prospettiv­a irrealizza­bile e non prevista dalla Costituzio­ne. La concession­e dell’autonomia, infatti, può essere solo a costo zero per lo Stato, pena il rischio di default del Paese. Se pensiamo infatti che l’ultima manovra fiscale del governo ammonta a 20 miliardi, si fa presto a capire come il trattenime­nto di ampia parte del residuo fiscale di regioni come Veneto e Lombardia manderebbe l’Italia a catafascio. Nessun governo lo accettereb­be.

Certamente non quello di centrosini­stra. Ma siamo pronti a scommetter­e – e sul perché ci siamo ampiamente espressi – che se la prossima primavera Zaia dovesse trattare con quello amico del centrodest­ra troverebbe di fronte un identico muro. Quel «muro di Berlino» che il governator­e vuole abbattere con il referendum di oggi. La parola passa ai veneti. Quelli che andranno a votare e quelli che resteranno a casa. Comunque finisca, questa terra scriverà un’altra pagina della sua storia.

Il rischio e il problema del consenso Lombardia, Emilia, Piemonte, Toscana e anche Puglia: il moltiplica­rsi delle richieste di autonomia potrebbe inibire i governi che dipendono dal consenso Prova di forza Il «sentimento» dei veneti. Quelli che andranno a votare e quelli che resteranno a casa. Comunque vada, oggi si scriverà una pagina di storia

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