Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
IL CASO VENETO NELL’URNA
La sfida delle competenze e quella (impossibile) di trattenere le tasse. Serve una vera riforma
Il Veneto e la Lombardia legaforzisti venati da tracce di Pd mezzo «allineato» e mezzo contrariato che l’autonomia la perseguono con lo «strappo» (del tutto costituzionale) del referendum. L’EmiliaRomagna che l’autonomia la chiede da centrosinistra e senza referendum attraverso la trattativa diretta con il governo (Costituzione: articolo 116). Il Piemonte governato dal democratico Chiamparino dov’è già nato il Comitato promotore per l’autonomia. La rossa Regione Toscana che ha approvato un documento del Pd per chiedere a Roma maggiori competenze. E per non farci mancare nulla, rotolando verso Sud, il governatore pugliese Michele Emiliano che annuncia di volere più competenze senza brandire alcun referendum. Il tutto condito dal neo padannazionalista Salvini che auspica una condizione di «autonomia speciale» per tutte le Regioni. Che dire? Che la morale da tirare viene perfino facile: autonomia per tutti uguale autonomia per nessuno. Sgonfiata e neutralizzata, nel cumulo delle aspettative, dalla insostenibile somma economica delle richieste.
Come fa uno Stato a concedere a «tutte» le Regioni un’autonomia che di fatto presuppone un saldo più robusto del portafoglio interno, cioè più soldi? Perché, fuor di ipocrisia, il tema è quello dei soldi. E siccome la torta del bilancio nazionale è sempre la stessa, spartire diversamente presuppone – per il principio dei vasi comunicanti - scelte sanguinose e impopolari. Cioè premiare una o più regioni rispetto ad altre. Cosa che nessun governo né di centrosinistra né di centrodestra ha mai fatto e farebbe, perché dovrebbe rinunciare al consenso dei territori che ricevono una parte inferiore di torta. Alla quale accedono anche (e soprattutto) le Regioni a statuto speciale. Che, per lo stesso motivo – il consenso – nessuno si sognerebbe di toccare, sebbene siano ormai percepite come un anacronismo e indicate come fonte di dumping interno dagli stessi governatori di Veneto e Lombardia.
Allora che si fa? E’ giusto che le regioni virtuose pretendano pur nell’essere più ricche forme di trattamento compatibili con il loro profilo etico-economico, seppur in un regime di regionalismo solidale? Sì, è giusto. Ma il dubbio che sorge è se il referendum lombardoveneto possa arrivare ad ottenere non qualcosa di effettivamente raggiungibile ma una «posta» impossibile. Per cui, mettendo in testa l’assunto finale del nostro ragionamento, ci chiediamo se nell’impasse di una politica che non «può» o non «vuole» perdere consenso, l’unica soluzione ipotizzabile non sia un’altra: una vera e seria riforma costituzionale in chiave federale dove alla base di tutto ci siano merito, responsabilità e solidarietà.
Una riforma naturalmente coraggiosa, che parta magari dal totem dei costi standard (un pasto per un paziente all’ospedale, per esemplificare, non può costare sei euro al Nord e un tot di volte in più al Sud) e dalla consapevolezza che al netto della solidarietà una regione non possa scialare senza la prospettiva di poter fallire. Un progetto, questo, accantonato negli ultimi anni dalla centralizzazione delle risorse dettata dalla crisi (governo Monti) oltre che per gli scandali di qualche regione. E del resto mai attuato, a riprova di quel che si diceva, né dal centrodestra né dal centrosinistra né tantomeno da un fronte istituzionale unito che quando c’è da lavorare per le regole base del Paese anziché per le botteghe di partito non ne fa mai una di giusta (vedi l’ultima improbabile legge elettorale). Il centrodestra – che a parole ha preso il campo del federalismo - non ha partorito alcunché pur avendo avuto per anni il governo del paese da Bolzano a Caltanissetta; mentre il centrosinistra ha varato il famoso «Titolo quinto» della Costituzione, tentativo di decentramento arrivato quasi subito ai titoli di coda con esiti per alcuni aspetti anche dannosi vista la sovrapposizione delle competenze fra Stato e Regioni e l’aumento della spesa con riverbero sul debito pubblico.
I referendum sull’autonomia che si tengono oggi in Veneto e Lombardia arrivano in un momento in cui la spinta autonomista è tornata al centro della scena. Al di là dei fermenti anche traumatici delle piccole patrie d’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio) sembra che di fronte alla complessità e alle ricadute della globalizzazione l’unico verbo sia diventato secedere. Intere Regioni e Comuni: l’unica soluzione invocata è la separazione. Centrale, sotto questo aspetto, un redivivo e pronunciato spirito identitario non solo frutto della storia dei singoli territori, ma di quel complesso mix, appunto, di crisi da globalizzazione e di difficoltà a far coesistere l’idea stessa di nazione e quella di un’Europa in grado di affrontare le sfide continentali. Esito ineludibile per quanto messo a repentaglio dagli errori che la stessa Europa ha compiuto e continua a compiere (dal nodo immigrazione alle sperequazioni legislative tra i vari Paesi).
Ma sarebbe semplicistico liquidare questa forza centrifuga come vuota rivendicazione e «avido malessere». Se giusta è la preoccupazione degli Stati nazionali di tenere insieme il quadro istituzionale interno ed esterno (l’Europa), sbagliato è non cogliere i segnali di intere comunità. Nello specifico, se per anni abbiamo parlato di «questione meridionale», al di là delle spinte separatiste radicali pericolose e prive di futuro, esiste anche una «questione settentrionale». Legata spesso alla mancanza o alla lentezza di risposte alle sollecitazioni, ad esempio, di un mondo produttivo che al netto delle lacune della sua classe dirigente si porta appresso uno storico di pressione fiscale, burocrazia, giustizia e pubblica amministrazione «incrostati». Il fatto che tutte le categorie economiche venete – nessuna esclusa – si siano schierate per il sì al referendum odierno, è la dimostrazione che «un problema» esiste e va affrontato. Pur nella consapevolezza che il mondo imprenditoriale, forte soprattutto nelle città-metropoli fat-
te di innovazione e saperi (compresa quella veneta «diffusa»), la sua sfida la deve giocare in un’ottica di Italia-Europa-Mondo. Guardando all’esterno più che mirando al proprio ombelico. Per non parlare – a proposito di malessere, di un «sentimento di popolo» condiviso almeno da una parte di questa regione. Che pur essendo in debito per quella sorta di piano Marshall che nel dopoguerra ha consentito l’uscita dalla miseria di intere province beneficiate dagli ingenti sussidi delle Partecipazioni Statali, oggi si sente in credito per aver tirato e per continuare a tirare la carretta da almeno qualche decennio anche per conto degli «altri».
Il punto, oggi che quattro milioni di veneti sono chiamati al voto, è se questo referendum per il quale abbiamo speso 16 milioni di euro, oltre che avere un senso approderà a qualcosa di concreto.
Innanzitutto si tratta di un referendum consultivo, dopo il quale la Regione Veneto dovrà andare a trattare con il governo (questo o un altro). A meno che non accada ciò che il governatore leghista Luca Zaia, con l’orgoglio del proponente che lancia la sfida dell’ora o mai più, vorrebbe che mai accadesse: che a votare vada solo un veneto su due. Nel qual caso – anche fosse centrato il quorum (51 per cento) - ha annunciato che cancellerà qualsiasi velleità di autonomia. In caso contrario, cioè con una buona affluenza (la grande maggioranza del sì è scontata), partirà appunto la trattativa. Che prevede la richiesta di una o più (o tutte) delle 20 competenze «concorrenti» fra Stato e Regione e delle tre di attuale pertinenza dello Stato. Si va - per citarne alcune - dall’istruzione alla formazione, dalla ricerca scientifica all’internazionalizzazione delle imprese, dalla tutela dell’ambiente a quella della salute, dai giudici di pace alla finanza pubblica.
A scanso di equivoci, è bene chiarire in cosa consista il trasferimento di competenze. Se per ipotesi il Veneto ottenesse quella legata alla gestione delle strade, come dotazione avrebbe il trasferimento della stessa cifra spesa dallo Stato. Non un euro in più e non uno in meno. Quale il vantaggio? La gestione virtuosa delle strade – sempre riuscisse – porterebbe al risparmio di una cifra investibile su un altro fronte. Un principio federalista ineccepibile. Che però, fanno notare gli anti-referendum, si sarebbe potuta ottenere andando subito a trattativa con Roma senza celebrare una dispendiosa consultazione.
Da parte sua Zaia, invece, rino tiene che con la «legittimazione di popolo» ottenuta attraverso un referendum il potere contrattuale con Roma si alzerebbe di non poco e la stessa cosa pensa chi in questo 22 ottobre andrà a votare.
Ma il governatore del Veneto, assieme a quello della Lombardia, ha messo un ulteriore «carico» in questa consultazione, attribuendole la possibilità di contrattare e ottenere una parte del cosiddetto residuo fiscale, che per il Veneto ammonterebbe a 15 miliardi e per la Lombardia a 54 (18 sono quelli dell’Emilia). In pratica, il «modello Bolzano», Provincia speciale che trattiene i 9 decimi delle tasse nel proprio territorio. Si tratta – per stessa ammissione dell’uomo forte della Lega a Mila- Giancarlo Giorgetti – di una prospettiva irrealizzabile e non prevista dalla Costituzione. La concessione dell’autonomia, infatti, può essere solo a costo zero per lo Stato, pena il rischio di default del Paese. Se pensiamo infatti che l’ultima manovra fiscale del governo ammonta a 20 miliardi, si fa presto a capire come il trattenimento di ampia parte del residuo fiscale di regioni come Veneto e Lombardia manderebbe l’Italia a catafascio. Nessun governo lo accetterebbe.
Certamente non quello di centrosinistra. Ma siamo pronti a scommettere – e sul perché ci siamo ampiamente espressi – che se la prossima primavera Zaia dovesse trattare con quello amico del centrodestra troverebbe di fronte un identico muro. Quel «muro di Berlino» che il governatore vuole abbattere con il referendum di oggi. La parola passa ai veneti. Quelli che andranno a votare e quelli che resteranno a casa. Comunque finisca, questa terra scriverà un’altra pagina della sua storia.
Il rischio e il problema del consenso Lombardia, Emilia, Piemonte, Toscana e anche Puglia: il moltiplicarsi delle richieste di autonomia potrebbe inibire i governi che dipendono dal consenso Prova di forza Il «sentimento» dei veneti. Quelli che andranno a votare e quelli che resteranno a casa. Comunque vada, oggi si scriverà una pagina di storia