Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Luigi Cadorna Il comandante delle contraddizioni
I l 27 dicembre del 1928 molti italiani trasalirono assistendo alla proiezione del cinegiornale Luce: un servizio, illustrato con fredde didascalie, fu infatti dedicato agli «austeri funerali di Sua Eccellenza il Maresciallo d’Italia Luigi Cadorna» svoltisi a Pallanza, elegante cittadina sul Lago Maggiore. Le esequie del temutissimo comandante dell’Esercito italiano nella Grande Guerra, per tutta Italia «il Capo», più che «austere» parevano una goffa messa in scena con protagonisti gli assenti. Non c’era il re e non c’era nemmeno Mussolini, il capo del governo. Al loro posto il principe ereditario, qualche carica dello stato, qualche reparto. Nient’altro. Ben diverso destino aveva avuto la salma di Douglas Haig, il condottiero britannico che tutta Inghilterra chiamava «il macellaio» per aver mandato i suoi sottoposti a farsi massacrare sulla Somme, scomparso qualche mese prima: cerimonia funebre a Westminster, diretta BBC, due futuri monarchi a rappresentare la nazione. Così pure Joseph Joffre, il vincitore della Marna, nel gennaio 1931, dopo la sua morte, per due giorni venerato all’Ecole Militaire di Parigi da decine di migliaia di francesi in lutto. Persino Franz Conrad von Hötzendorf, il generale che aveva guidato militarmente la sconfitta e dissolta Austria-Ungheria, ebbe onoranze funebri principesche che per qualche ora parvero riportare l’umiliata repubblica alpina ai fasti asburgici. Nulla di tutto ciò fu concesso a Cadorna perché, come spiega molto bene Marco Mondini, apprezzato storico bassanese, nel suo ultimo lavoro pubblicato da Il Mulino Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna (388 pp., 26 euro), Cadorna rappresentava e rappresenta per l’Italia un grosso problema. Un problema che trae origine da una data fatale: 24 ottobre 1917, Caporetto. Prima di quella disfatta e della conseguente ritirata sul Piave, nonostante le sanguinose ed inutili «spallate» sull’Isonzo e altrove che in circa due anni e mezzo avevano lasciato sul terreno oltre 400.000 combattenti, Cadorna era pur sempre «un uomo al culmine del potere, padrone quasi assoluto di un esercito che superava i due milioni di uomini, temuto dai suoi stessi governanti che non osavano né criticarlo né disfarsene». Con Caporetto tutto cambia. Lui stesso in quelle ore scriveva: «In dieci giorni io, l’idolo dell’Italia e dell’Europa, sono giunto al fondo della miseria». La Commissione d’inchiesta istituita nel 1918 dapprima fa di lui il colpevole di tutti gli errori commessi durante il conflitto. Poi, a vittoria conseguita, il regime fascista, che sul mito della Grande Guerra ha legittimato la sua ascesa, dopo avergli concesso nel 1924 il grado apicale delle forze armate, quello di Maresciallo d’Italia, e dopo avergli intitolato ovunque strade e piazze, cerca di far calare sul suo nome un rassicurante oblio. Operazione fallita perché il Capo, oggi come allora, nella storiografia e non solo, resta una figura assolutamente controversa e divisiva, «in perenne oscillazione tra idolatria e demonizzazione». I suoi sostenitori più entusiasti ritengono sia giunta l’ora di riabilitare il generale che, con tutti gli errori del caso, ebbe comunque la capacità di creare dal nulla un esercito di massa in grado di competere con un’armata tra le più potenti al mondo. I detrattori più accaniti, viceversa, continuano a considerarlo un sadico macellaio il cui nome andrebbe rimosso totalmente da ogni memoria, anche quella toponomastica. Per uscire da ogni banale faziosità, Mondini interpreta la biografia di Cadorna come uno specchio su cui si riflettono alcune questioni ancor oggi in Italia irrisolte: l’ansia riformista, il disprezzo per i sottoposti, la scarsa comprensione della modernità da parte delle classi dirigenti, la tentazione del potere. Tutti problemi che – il saggio lo dimostra - Luigi Cadorna non poté che affrontare a suo modo. Ovvero, naturalmente, da Capo.