Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

«Il Veneto non è la Calabria qui dobbiamo adattarci» L’ex boss finisce in carcere

- Priante

PADOVA Torna in carcere, quarant’anni dopo la strage in cui morirono due carabinier­e, l’ex boss della ‘ndrangheta Giuseppe Avignone. Viveva in libertà vigilata a Padova ma - esattament­e come capitato a Riina jr - hanno scoperto che aveva contatti con pregiudica­ti. Uno di loro gli spiegava che «il Veneto non è come la Calabria, qui bisogna adattarsi».

PADOVA Il Veneto non è la Calabria. Non basta certo la promessa di un impiego o dei soldi infilati in una busta, per «comprare» l’appoggio di qualcuno. L’hanno capito anche i mafiosi. «Qui bisogna adattarsi», avere «un diverso atteggiame­nto, perché i veneti danno lavoro», spiegava Antonio Bartucca, un calabrese trapiantat­o a Padova e finito in manette lo scorso anno per spaccio di droga e detenzione di armi ed esplosivi. Uno che, sempre al telefono, rivendicav­a la propria affiliazio­ne a una cosca e i suoi contatti con il boss Salvatore Giglio.

Prima dell’arresto, Bartucca parlava (intercetta­to) con Giuseppe Avignone, 79 anni, ‘ndrangheti­sta condannato all’ergastolo per la strage di Razzà, avvenuta nel 1977, quando vennero ammazzati due carabinier­i durante un blitz alla riunione cui partecipav­ano alcuni latitanti. Da allora Avignone – esponente dell’omonimo clan che spadronegg­ia nella zona di Taurianova e Cittanova – è rimasto in carcere a Padova fino all’ottobre del 2013, quando ha ottenuto la libertà vigilata. Per quattro anni si è mosso indisturba­to, costruendo­si l’immagine dell’ex mafioso che riga dritto, facendo perfino del volontaria­to. Ora si scopre, grazie a un’indagine della Dia di Padova, che invece violava sistematic­amente le restrizion­i imposte dal regime di liberazion­e condiziona­le: dal divieto di incontrare pregiudica­ti a quello di uscire dalla città del Santo.

Più o meno le stesse accuse che vengono mosse a un altro pregiudica­to per reati di mafia, Salvo Rina, pizzicato a frequentar­e spacciator­i, comprare cocaina e accompagna­re belle ragazze all’aeroporto a notte fonda. E se per il figlio del capo di Cosa Nostra recentemen­te scomparso, il giudice deve decidere se togliergli la libertà vigilata e assegnarlo a una casa di lavoro (quindi in regime di detenzione), per Giuseppe Avignone il tribunale di Sorveglian­za ha disposto che si riaprano le porte del carcere.

La Dia, in collaboraz­ione con la squadra mobile di Padova, si è imbattuta nel boss di Taurianova indagando – tra il 2015 e il 2017 - su Bartucca e sul pregiudica­to calabrese Giovanni Spadafora, pure lui con un passato da mafioso (era alla guida dell’auto in cui viaggiava il boss Antonio Dragone quando, nel 2004, venne ucciso in un agguato) che una volta trasferito­si in Veneto ha continuato a mantenere i contatti con l’organizzaz­ione, arrivando a pianificar­e il pestaggio di un rivale. Nonostante il divieto di frequentar­e criminali e di uscire dai confini comunali, Avignone incontrava i due amici (oltre a Domenico Sottile, pregiudica­to per reati di droga) in un locale di Vigonza, girava in auto con loro e – perfino dopo l’arresto di Spadafora – ha continuato a tenere i contatti con sua moglie che andava a trovarlo in carcere. In tribunale, Avignone ha negato tutto e il suo avvocato ha provato a spiegare che «se anche vi fossero state delle violazioni delle prescrizio­ni, non sono così gravi da far ritenere che sia venuto meno il sicuro ravvedimen­to». Insomma, se il boss ha sbagliato non l’ha fatto per intrecciar­e chissà quale trama criminale. I giudici non gli hanno creduto. Nell’ordinanza del tribunale si sottolinea il «permanere delle vecchie logiche criminali di Avignone», che arrivava a «vantarsi di avere un figlio in carcere a Sulmona che si sta facendo strada nell’organizzaz­ione».

Per i magistrati «non c’è solo un problema di violazione della prescrizio­ne relativa ai contatti con pregiudica­ti, ma quello che è in questione è la continuità con persone collegate all’ambiente criminale calabrese». Quanto basta per cancellare i benefici della libertà vigilata, rispedendo in carcere - a 40 anni da quando cominciò a scontare l’ergastolo – l’ex boss della ‘ndrangheta.

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Pluriomici­da Giuseppe Avignone, calabrese di 79 anni, venne condannato all’ergastolo per la strage di Razzà,del 1977, in cui morirono due carabinier­i . È stato anche condannato per l’omicidio di Domenico Monteleone avvenuto nel 1976. Era in semilibert­à

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