Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Paolini e Brunello Il film sui cento anni di Caporetto
Presentato a Torino il film di Ferrario. L’attore e il musicista veneti raccontano Caporetto
Un violoncellista suona nel silenzio di un grigio, imponente sacrario: è Mario Brunello, il musicista di Castelfranco Veneto, celebre a livello internazionale, che all’interno dell’Ara Pacis di Medea (Gorizia) intona Havun Havun, un’antica melodia armena, mentre sullo schermo scorre un montaggio di immagini di cimiteri e sacrari della Prima Guerra Mondiale.
L’ispirata esecuzione di Brunello conferisce così un’atmosfera rituale alla sequenza di apertura di Cento anni, il film documentario di Davide Ferrario, regista e scrittore cremonese. La pellicola, basata su un soggetto di Giorgio Mastrorocco, professore documentarista bergamasco, viene proiettata oggi in anteprima mondiale al 35esimo Film Festival di Torino e uscirà nelle sale il prossimo 4 dicembre.
I cento anni sono quelli della storia italiana a partire dal 24 ottobre 1917, data della fatidica disfatta di Caporetto, quando l’esercito italiano cedette all’attacco delle truppe austro-ungariche spalancando così le porte dell’Italia al nemico. Da quel giorno Caporetto è l’emblema di ogni cocente sconfitta non solo in ambito militare ma esistenziale in senso lato. Il lungometraggio è un racconto in quattro capitoli di altrettanti periodi cruciali della storia italiana, vicende di sconfitta ma anche occasioni di rinascita: oltre a Caporetto, la Resistenza e il post-fascismo, la strage di Piazza della Loggia e l’attuale crisi demografica, una sorta di Caporetto dei nostri giorni che vede spopolarsi terre, come quelle dell’Appennino centro meridionale.
«Dopo il successo di Piazza Garibaldi e di La zuppa del demonio - spiega Ferrario - con Giorgio Mastrorocco abbiamo chiuso una sorta di trilogia sulla storia italiana. Partendo da una citazione di Mario Isnenghi che “noi italiani impariamo molto più dalla sconfitta che dalla vittoria”, abbiamo assunto il paradigma di Caporetto per rovesciarlo, mettendo a fuoco lo spirito di resistenza ed elaborazione della sconfitta che il nostro popolo è capace di avere». Della prima Caporetto gli autori ricordano le problematiche umane: le storie di profughi, orfani e prigionieri, ambientandole nei luoghi di altre Caporetto del Novecento, dalla Risiera di San Sabba alla diga del Vajont.
Storie drammatiche affidate tra gli altri alle capacità narrative di Marco Paolini, magistrale nel trasmettere emozioni autentiche.
L’attore veneziano parla con partecipazione, ma senza retorica dei «figli bastardi, i ripudiati di Caporetto… morti di fame nei campi di prigionia, respinti dalle stesse famiglie che li considerano traditori». Una partecipazione, la sua, che chiude il cerchio aperto dall’amico Brunello nell’esordio. Si passa quindi alla vicenda famigliare di Massimo Zamboni, autore del libro L’eco di uno sparo, dove racconta del nonno, gerarca fascista, ucciso in un agguato da due partigiani, uno dei quali negli anni ‘60 ucciderà l’altro. E in successione, il focus va alla strage di Piazza della Loggia a Brescia, nel 1974 attraverso le interviste ai superstiti, ai parenti, ai «nuovi bresciani, immigrati».
Chiude il film il viaggio del poeta Franco Arminio attraverso Irpinia e Basilicata, e la domanda iniziale «A cosa servono i morti» si trasforma nel desolato interrogativo «A cosa servono i vivi?».