Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Quel nesso da spezzare tra denatalità e disoccupazione giovanile
Esiste un nesso tra la denatalità e l’incremento della disoccupazione giovanile: difficile metter su famiglia, e fare figli, se non si hanno mezzi di mantenimento. La strategia seguita in Europa per far fronte al problema dell’invecchiamento della popolazione e il mancato ricambio generazionale è stata quella di aprire il mercato ai flussi migratori con l’Italia che s’è distinta nell’accogliere, senza programmazione e governo reale del fenomeno, masse di manodopera non specializzata e a basso livello di preparazione. Nel nostro paese non ci sono state politiche di sostegno alla famiglia, né sono state avviate strategie di impiego giovanile, né si è favorito il ricambio generazionale nei fatto bloccato con la Riforma Fornero che ha alzato, e continua ad elevare, l’età pensionabile. Mi si dice che non esiste studio che confermi il nesso tra innalzamento dell’età pensionabile e incremento della disoccupazione giovanile, ma questa risposta non mi convince affatto. Senza lavoro e senza certezze, arrischiarsi di mettere al mondo dei figli è un azzardo, un rischio che comprensibilmente una persona assennata non prende. Non si assume la responsabilità di mettere al mondo un figlio chi ha un lavoro precario o con difficili condizioni lavorative, cioè bassa remunerazione nonostante un orario di lavoro a dir poco intenso. Guardiamo al dato statistico dei senza lavoro di cittadini compresi tra i 25 e i 34 anni di età: nel 2016 a livello nazionale essi erano il 17,7 per cento, sei punti percentuali in più rispetto alla media generale dell’11,7 per cento della disoccupazione che riguarda tutti i lavoratori statisticamente compresi dall’Istat tra i 14 e i 65 anni d’età. E proprio la fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni è quella in cui si dovrebbe concentrare il maggior numero di nuclei famigliari in cui si dovrebbe registrare il maggior tasso di natalità. Guardiamo anche al popolo del Neet, giovani che non lavorano e non studiano: in Italia, nel 2016, erano 1.254.000 persone: siamo al penultimo posto tra i Paesi Ocse, preceduti solo dalla Turchia e abbiamo un dato peggiore rispetto persino a Grecia e Spagna. C’è poi il dato di chi fugge dall’Italia e penso ai giovani cervelli costretti ad emigrare per trovare un lavoro degno del loro titolo di studio o in grado di garantire possibilità di crescita. Il nodo della natalità e il contrasto all’invecchiamento della popolazione passano innanzitutto dal ricambio generazionale nel mercato del lavoro: oggi abbiamo lavoratori anziani, spesso non in grado di sfruttare al meglio le potenzialità delle tecnologie, e nativi digitali, che le potenzialità tecnologiche saprebbero farle sfruttare al meglio, senza lavoro. Contestualmente c’è il nodo delle politiche di sostegno alla famiglia: non si tratta di fare mance e regalare bonus, quando di dar vita a un vero e proprio programma che porti a ripensare l’intera organizzazione delle nostre città e del lavoro. Oggi, ad esempio, esistono molte mansioni che potrebbero essere svolte attraverso il telelavoro, cioè da casa, il che comporterebbe grandi vantaggi anche in rodine al problema degli spostamenti, pendolarismo e congestionamento del traffico nelle cosiddette ore di punta. Il telelavoro, ovviamente regolamentato e tale da non trasformarsi in una prigione casalinga, è una opportunità e un esempio. Il telelavoro da solo non basta di certo a risolvere il problema, ma è un primo anche se piccolo passo. E di piccoli passo in piccolo passo si costruisce un cammino. Ma se non si inizia, non si parte: la prossima campagna elettorale per le politiche (ma anche per le amministrative) deve passare anche per questi nodi se vogliamo arrestare il declino di un Paese dove negli ultimi anni, di bonus in bonus, si è perso fin troppo tempo.
*Presidente Consiglio Regionale Veneto