Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Ca’ Foscari, copia tre tesine ricercatore smascherato e cacciato dall’università
Venezia, ex studente di Ca’ Foscari non merita il dottorato di ricerca in quanto ha violato il patto etico con l’ateneo. Questo perché il software anti-plagio dell’ateneo ha scoperto che ha copiato tre tesine e lo ha espulso. Lui ha fatto ricorso al Tar, ma i giudici hanno dato ragione all’università.
Alla maggior parte dei lettori, soprattutto delle giovani generazioni, il nome di Mario Tronti suonerà sconosciuto. Ben altri sono i personaggi di cui si parla (e si chiacchiera). Mentre il riferimento ad uno studioso, ad un filosofo della politica, arrivato quasi alla soglia dei novant’anni, sembrerà quanto meno stravagante. Eppure, Tronti è stato uno dei protagonisti più importanti della ricerca teorica italiana ed europea della seconda metà del Novecento, una di quelle rare figure di pensatore libero, indipendente, originale, di cui in larga misura si è perso lo stampo. Se si asseconda la triste consuetudine di andare a caccia di dettagli piccanti, si potrebbe ricordare che Tronti viene ricordato come il padre di quella corrente di pensiero definita «operaismo», promossa soprattutto da riviste come i «Quaderni Rossi» e «Classe operaia», in voga negli anni sessanta e settanta, mediante le quali personaggi come Toni Negri, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Sergio Bologna, hanno collaudato le formule teorico-politiche che sono state alla base dei movimenti di quel travagliato periodo storico, del quale il Veneto e padova in particolare sono stati protagonisti. Pietra miliare dell’elaborazione che traeva ispirazione da una rilettura fortemente innovativa di Marx è il libro di Tronti, «Operai e capitale», comparso originariamente nel 1966, a due anni dal joli mai del ’68. Abituati alle interpretazioni fuorvianti e soporifere del pensiero marxiano proposte dagli esponenti del marxismo accademico (da Mario Rossi a Cesare Luporini, da Valentino Gerratana a Giuseppe Prestipino), i giovani che incontravano Marx nelle pagine di Tronti dovevano subire un vero e proprio shock intellettuale. Di qui la diffidenza con la quale da sempre gli «operaisti» sono stati trattati dai partiti della sinistra, per il sospetto che la loro adesione corrispondesse semplicemente ad una manovra tattica (quella del cosiddetto «entrismo»). Anche in tempi recenti, segnati dalla militanza di Tronti nel Pd, per il quale egli è stato anche eletto senatore, non si sono completamente dissolti i dubbi sulla sua ortodossia, dovuti principalmente alla sua tenace riluttanza ad essere omologato come figura di intellettuale organico di gramsciana memoria. Detto tutto ciò, quello che è accaduto di recente al Senato può sembrare perfino incredibile. Nel pieno della discussione sulla legge elettorale, fra urla e insulti, dai banchi dell’aula si distingue appena la figura di quest’uomo di piccola statura, imperturbabile come un intellettuale di altri tempi. Sommerso dalle grida, Tronti legge la sua personale interpretazione dell’anniversario della rivoluzione di Ottobre. Il punto centrale di quel discorso segnala un problema di grande rilievo, tuttora di grande attualità. Formulato attraverso alcuni interrogativi: «Rivoluzione e guerra, rivoluzione e terrore, sono dunque inseparabili? Dobbiamo dunque per questo rinunciare al tentativo di un rivolgimento totale»? Insomma: era inevitabile che la formidabile spunta di liberazione espressa dalla Rivoluzione di Ottobre si convertisse poi in uno dei regimi più autoritari e repressivi che la storia abbia conosciuto? Non si tratta – è appena il caso di sottolinearlo – di problemi di poco conto. Fra il binomio, apparentemente inscindibile, rivoluzione-dispotismo, e lo sterile, esasperante e infine inconcludente gradualismo delle riforme, davvero non si dà una terza possibilità? Davvero, imparando la lezione che ci proviene da questi cento anni di storia, dobbiamo rassegnarci a scegliere fra cambiamenti reali, capaci di incidere profondamente sul rapporto fra l’alto e il basso della società, ma anche intrinsecamente portatori di autoritarismo, e la supina acquiescenza all’immobilismo del sistema democratico parlamentare? Mentre non si sono ancora spenti i clamori scomposti dell’aula del Senato, le domande poste da una solitaria figura di intellettuale continuano ad interpellarci.