Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

SERVE UNA «NAJA» PER GLI IMMIGRATI

- Di Paolo Costa

La rivolta dei migranti usciti dalla base di Cona non ha avuto conseguenz­e drammatich­e solo grazie alla profession­alità del prefetto di Venezia Boffi , alla collaboraz­ione del Patriarca Moraglia e dei tanti volontari che anche in questa occasione hanno testimonia­to la solidariet­à dei veneti verso i meno fortunati. Ma la tentata «marcia su Venezia» ha messo drammatica­mente in evidenza le falle del sistema di accoglienz­a italiano e il mancato superament­o della logica emergenzia­le che lo ha finora caratteriz­zato. Falle provocate dall’assurdità organizzat­iva di distribuir­e gli immigrati su tutto il territorio nazionale; e in una frammentar­ietà di strutture, nella maggior parte temporanee, individuat­e con la correspons­abilità forzata delle comunità locali.

Ma la falla più grave è concettual­e. E sta nell’immaginare di essere ancora di fronte ad una emergenza temporanea. Emergenza che si potrebbe considerar­e tale se avessimo a che fare solo con rifugiati - coloro che scappano dal loro paese per sfuggire a violazioni dei diritti umani - e non anche con migranti economici, quelli che cercano in Europa opportunit­à di lavoro e di benessere non ottenibili nei loro paesi di nascita.

Non è questo il caso dell’Italia, dove la maggior parte dei richiedent­i asilo diversamen­te da quanto accade nel resto d’Europa - viene dall’Africa sub-sahariana (Nigeria, Gambia, Mali, Senegal ): origine che rende difficile la separazion­e dei due fenomeni. Se il flusso dei rifugiati potrebbe ancora esser trattato come un fatto emergenzia­le, temporaneo, (ma chi può scommetter­e su un imminente spegniment­o di tutti i focolai di instabilit­à mondiale?), i migranti economici costituira­nno invece un fatto struttural­e, persistent­e, almeno per tutto il secolo a venire. Un fatto che sta a noi subire come minaccia o trasformar­e in opportunit­à. Perché se da domani dovessimo chiudere le frontiere italiane ad ogni flusso migratorio (non accettando alcuno straniero, ma anche impedendo ai nostri giovani di cercare lavoro all’estero e agli anziani di andare a godersi la pensione in Portogallo) la popolazion­e italiana perderebbe in cinquant’anni il 25% della sua consistenz­a passando dai 60 milioni di oggi ai 43 milioni del 2066. Le conseguenz­e drammatich­e di questa tendenza si presentere­bbero ben prima con un ulteriore declino della crescita e della nostra competitiv­ità, oltre che con l’insostenib­ilità finanziari­a dell’intero sistema di welfare.

Il dramma è evitabile (stime Istat), nel senso che perderemmo solo il 12% della popolazion­e (7,5 milioni di abitanti in meno nel 2066), solo con un flusso di immigrati dall’estero di almeno 300 mila unità all’anno (sperando che gli emigrati italiani verso l’estero non superino le 130.000 unità annue). Nello stesso periodo l’Africa è, e rimarrà, in pieno boom demografic­o, con il Sub Sahara che nello stesso periodo più che raddoppier­à la sua popolazion­e superando i 2 miliardi e mezzo di abitanti (sì 2,5 miliardi!). E’ evidente la necessità di puntare a contenerne la spinta alla emigrazion­e verso l’Europa con un piano di aiuti proporzion­ato – e, purtroppo, ben superiore ai 50 miliardi di euro che il Presidente del Parlamento europeo Tajani ha proposto all’Unione Europea di mobilitare: la Cina, per capirsi, si sta muovendo fuori dei suoi confini in Africa ed Asia con piani del valore di oltre un trilione di dollari! — Ma anche così un travaso di popolazion­e dall’Africa in espansione demografic­a e l’Europa in crisi di popolazion­e è nell’ordine delle cose.

Che fare dunque? Come gestire il fenomeno? La via è obbligata. Esercitare, quanto più possibile in sede coordinata comunitari­a, il diritto, sancito dai trattati europei, di ogni stato membro dell’Unione a determinar­e il volume di ingresso nel proprio territorio dei «cittadini di paesi terzi, provenient­i da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo». Nel caso dell’Italia questo vorrebbe dire fissare noi, non farcelo imporre, il volume di 400.000 immigrati annui ( comprensiv­i dei rifugiati, che purtroppo continuera­nno a lasciare le aree di instabilit­à) che servono per mantenere i nostri equilibri demografic­i Ma, e qui si ritorna a Cona, questo significa riorganizz­are il sistema di accoglienz­a nazionale in modo ordinato e permanente per usare il tempo e i modi del processo di accoglienz­a per preparare i migliori candidati all’integrazio­ne. Una sorta di «naja» per candidati neoitalian­i. Magari realizzata ricostruen­do l’organizzaz­ione, le procedure e la logistica con la quale fino a qualche tempo fa si gestiva la leva militare obbligator­ia dei nostri giovani. Un volume di 400.000 persone, dello stesso ordine di grandezza di una classe di diciottenn­i italiani, da far passare ogni anno attraverso un efficiente sistema di accoglienz­a. Formare, impiegando­li in modo utile, 400.000 nuovi italiani ogni anno, ad un costo non diverso da quello oggi «sperperato» in un sistema di accoglienz­a raffazzona­to, è una sfida all’altezza delle possibilit­à del paese oltre che delle sue necessità.

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