Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
‘Ndrangheta, blitz e cinque arresti «Padova è nostra»
Aprivano aziende con i soldi delle cosche
Gli ordini dei boss partivano dal Due Palazzi
VENEZIA L’operazione «Stige», coordinata dalla procura di Catanzaro, è scattata all’alba di ieri e ha portato a 169 arresti in diverse regioni, quasi tutti imprenditori e amministratori. Cinque gli uomini – accusati di collegamenti con la ‘ndrangheta - che risiedevano in Veneto. Operavano per investire i soldi della malavita in imprese «pulite». Come le aziende rilevate nel Padovano: una società immobiliare, una che forniva buttafuori ai locali, altre nel settore della panificazione. L’intercettazione: «Ci prendiamo Padova».
VENEZIA Tra il 2014 e il 2015 nel carcere di Padova è recluso il boss Salvatore Giglio. E da lì continua a impartire ordini e direttive ai suoi familiari e agli uomini della cosca. Lo fa durante i colloqui, usando frasi in codice e gesticolando.
Non è sempre facile anche perché, dopo che nel luglio del 2014 alcune guardie sono state arrestate per aver fatto entrare droga al Due Palazzi, «i controlli sono diventanti più minuziosi», spiega il capo. Anche la moglie se ne lamenta, dice che «non volevano far entrare nemmeno le melanzane che gli ha portato». E Giglio annuisce: «È successo un casino», ogni volta che si muovono vengono sottoposti a perquisizione «prima e dopo i colloqui». Ispezioni frequenti, quindi. Anche se dall’ordinanza del gip di Catanzaro emerge che «il direttore del carcere gli regala un colloquio (oltre a quelli previsti, ndr) da eseguirsi in palestra, luogo in cui i detenuti giocano a calcio».
I messaggi filtrano dal carcere per raggiungere gli affiliati. È sempre Giglio ad avere le idee chiare su come impegnare il denaro della cosca: «Con farina e acqua si fanno i soldi». E la moglie, guardando il figlio (presente anche lui al colloquio) dice: «C’è assai guadagno, capì». E quando gli chiedono se devono farlo a Strongoli (Crotone), il boss risponde secco: «Qua!», intendendo nelle zone del Padovano. Per l’accusa, «fa capire che a Padova devono iniziare e inserirsi nel mercato della panificazione» che in Calabria è già controllato, di fatto, dalla mafia e suggerisce «di interessarsi e vedere se riesce a trovare qualche forno che si vende».
Di «rilievo» viene anche definito il colloquio del 29 gennaio 2015 tra il boss, la moglie e il figlio Vincenzo, che nell’ordinanza viene definito «la mente imprenditoriale della cosca». Emergono piccoli problemi con l’affiliato a un altro clan che rifiutava la restituzione di una somma di denaro, e Salvatore Giglio risolve la questione rivolgendosi al boss di Cirò Superiore, Giuseppe Farao, pure lui detenuto a Padova, «affinché mandi a dire all’affiliato di cambiare atteggiamento e comunque non farli andare nelle zone del Padovano in quanto “loro zona” (inteso del clan degli strongolesi). Farao gli risponde «che mo’ che vanno da lui, glielo dice che quando vengono a Padova si devono comportare bene». E Giglio ribatte «che se non ci vengono proprio a Padova, è meglio».
Per il gip Giulio De Gregorio, «il colloquio mostra la particolare sinergia fra l’articolazione strongolese e la locale di ‘ndrangheta cirotana. Soprattutto mostra la vera e propria edizione di una stabile compenetrazione degli accoscati strongolesi nel territorio padovano» al punto che un pezzo da novanta come Giglio «si preoccupa di evitare problematiche ai suoi affiliati nella conduzione delle loro attività nel nord Italia».
Non c’è solo il Padovano nelle mire della ‘ndrangheta. Più in generale, il giudice osserva che «l’attività di polizia giudiziaria rivelava la presenza di un presidio di sodali insediato al Nord, sempre pronti ad adoperarsi per le esigenze, anche semplicemente logistiche, di esponenti di vertice (della cosca, ndr)».
Tra i 169 arrestati di ieri, c’è Gaetano Aloe che gestiva una pizzeria a Trissino, chiusa poche settimane fa in seguito a un’interdittiva dell’Antimafia. Ora si scopre che il 18 febbraio 2016 proprio nel Vicentino si presentò Pino Sestito il superboss di Cirò «con ogni probabilità per gestire investimenti che la cosca aveva in quei territori». Uno dei dipendenti di Aloe, attende fuori dal ristorante che i due finiscano di cenare, e quando riceve la telefonata del padre sembra eccitatissimo: «Oggi … è arrivato il boss di Cirò … il boss di Cirò … proprio il vero … sì … Pino Sestito… è venuto qua non so perché, ora infatti sono a cena fuori…».
Nelle carte dell’accusa, compare (in modo marginale) anche la figura della compagna di Gaetano Aloe, la vicentina Erika Lovato, che non rientra nell’elenco delle persone arrestate. Per il gip, da alcune intercettazioni emerge l’interesse della cosca di Cirò a «ingerirsi nel redditizio settore imprenditoriale del riciclaggio delle materie plastiche». Vengono trascritte le parole del boss Giuseppe Spagnolo (pure lui imparentato con la famiglia Aloe e arrestato), secondo il quale «gli introiti avrebbero dovuto essere divisi in parti eguali con una donna, la quale avrebbe dovuto assumere il controllo di una delle nuove società in fase di costituzione». Si tratta, secondo gli inquirenti, proprio di Erika Lovato. «Praticamente la plastica la danno a me - spiega Spagnolo - la vanno a scaricare nell’azienda nostra… e poi si fa al 50 per cento … il 50 io e il 50 lei».
Il messaggio è chiaro: gli affari si fanno insieme e tutti devono guadagnarci qualcosa. Con una regola, però: nei clan mafiosi è vietato sbagliare.
Il boss Spagnolo Come si sta comportando Gaetano Aloe? Sono tre anni che non ha fatto neanche un errore Ma il primo che farà ne pagherà tutto (sic)
Il giudice Il boss dà ordine di dire all’affiliato di cambiare atteggiamento e di non andare nel Padovano perché questa zona è del clan di Strongoli
E infatti, quando il pregiudicato con il quale il boss sta parlando gli chiede notizie sul comportamento di Gaetano Aloe, Spagnolo replica che non avrebbe tollerato alcun passo falso: «Sono tre anni che non ha fatto neanche un errore … Il primo che farà ne pagherà tutto!».