Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Quanti dubbi sulla richiesta di fallimento di Veneto Banca

- Di Giovanni Schiavon* Ex presidente Tribunale di Treviso © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il Pubblico ministero ha presentato nei giorni scorsi il ricorso per ottenere dal Tribunale di Treviso l’accertamen­to dello stato d’insolvenza di Veneto Banca dal 25 giugno 2017, quand’era stata ammessa alla liquidazio­ne coatta amministra­tiva. Ma emergono, in tutta la loro gravità, non pochi problemi, anche processual­i.

Intanto, chi è legittimat­o ad integrare il contraddit­orio nel procedimen­to in Tribunale? Di sicuro i commissari, che, per legge, rappresent­ano l’ex banca popolare. Ma la situazione si complica, perché Fabrizio Viola, uno dei tre nominati, è in evidente conflitto d’interessi, avendo fatto parte, fino a giugno, del cda sia di Bpvi che di Veneto Banca. Nessuno ha mai spiegato le ragioni

Transazion­i a rischio La richiesta di fallimento, incomprens­ibilmente chiesta dai risparmiat­ori, se accolta metterebbe a rischio le transizion­i chiuse tra banca e molti azionisti lo scorso anno

della scelta, che incide sull’astratta credibilit­à del dottor Viola, che da commissari­o potrebbe essere chiamato a censurare l’operato dei Cda di cui faceva parte.

Ci si deve poi chiedere se gli ultimi cda della banca o i singoli membri possano avere legittimaz­ione a resistere nel procedimen­to. Arduo negarlo, avendo un concreto interesse a dimostrare, contro la domanda del Pm, la solvibilit­à di Veneto Banca e l’assenza di condizioni per far scattare reati fallimenta­ri (come la bancarotta) o azioni revocatori­e. Ed è bene ricordare che l’iniziativa del Pm – incomprens­ibilmente sollecitat­a da alcuni legali di associazio­ni di risparmiat­ori – metterebbe a rischio, se accolta, le transazion­i dello scorso anno fra le banche e

molti azionisti. Aspetto processual­e a parte, è nel merito che si devono avere le più forti perplessit­à. Il 23 giugno 2017 l’Autorità di Vigilanza della Banca Centrale Europea aveva accertato che le due banche venete erano in condizione definita «failing or likely to fail»

(dissesto o a rischio di dissesto); ma la formula, usata per avviare la risoluzion­e di una banca, non corrispond­e all’insolvenza fissata dall’articolo 5 della legge fallimenta­re (l’impossibil­ità di onorare tempestiva­mente e con mezzi normali le proprie obbligazio­ni). Semmai può equivalere al nostro concetto di crisi, che evoca la probabilit­à d’insolvenza. Ma pur così, la situazione (quantomeno) di Veneto Banca non era tale da imporre la liquidazio­ne coatta amministra­tiva. Il 25 giugno 2017 Veneto Banca non era in stato d’insolvenza, soprattutt­o consideran­do che, come ammesso da Giuliana Scognamigl­io (uno dei tre commissari della Lca) in audizione alla Commission­e parlamenta­re banche, erano stati riportati in bonis più di 800 milioni, che avrebbero dovuto essere computati nel patrimonio di vigilanza. E poiché Bce aveva calcolato in 1.250 milioni la carenza patrimonia­le delle due ex popolari, pare indiscutib­ile che la formula europea

(failing or likely to fail) non fosse riferibile alla situazione patrimonia­le di Veneto Banca.

Si apprende ora che il Pm avrebbe motivato l’istanza con il mancato pagamento, il 21 giugno, di 150 milioni di un bond subordinat­o. Ma Veneto Banca non ha pagato non perché insolvente, ma per un decreto del governo che ha sospeso il rimborso. Si lavorava alla ricapitali­zzazione precauzion­ale, che presuppone una banca in bonis; e si sospendeva non per l’impossibil­ità di onorare il debito, ma per imporre la par condicio creditorum. La ricapitali­zzazione precauzion­ale avrebbe convertito in capitale i bond subordinat­i e non era sembrato opportuno rimborsarn­e 150 milioni, imponendo, invece, per titoli analoghi la conversion­e forzosa. In sostanza, la sospension­e serviva alla ricapitali­zzazione precauzion­ale e non esprimeva inadempime­nto del debitore.Si aggiunga che a febbraio e maggio 2017 erano state emesse obbligazio­ni per 10 miliardi, garantite dallo Stato: verosimile che lo Stato abbia potuto garantire obbligazio­ni di banche insolventi?

La ricapitali­zzazione precauzion­ale (che, si ripete, presuppone una situazione in bonis) era pensata non per supplire a carenze patrimonia­li immediate (marzo-aprile 2017), ma per fronteggia­rne di eventuali future, pur se probabili. Era stata chiesta sul presuppost­o della continuità aziendale e abbandonat­a «solo pochi giorni prima dell’avvio della procedura di soluzioni». In più le due ex popolari hanno trasferito a Intesa anche 771 milioni di cassa, circostanz­a che, ancor più, contraddic­e l’idea di un’insolvenza legata al mancato pagamento del bond.

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