Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
La Cgil: società sportive fra opacità e precari
«Personale senza contributi e sponsorizzazioni gonfiate»: l’accusa del sindacato alle realtà dilettantistiche
TREVISO Lo sport da dilettanti, a praticarlo, è cosa mediamente molto pulita. Se si tratta invece di gestire società sportive il quadro cambia e si fanno opaco, specie se si parla di lavoro. Un riflettore su questo mondo lo ha voluto accendere la Cgil di Treviso attraverso le sue categorie del Nidil (le Nuove Identità di Lavoro, cioè il vasto ambito dei precari) e Slc, ossia la sigla di riferimento degli operatori della comunicazione e della cultura. Con un convegno promosso pochi giorni fa, dal titolo «Fare squadra per i diritti», il sindacato ha voluto innanzitutto provare a descrivere il sistema dello sport noprofit e mettere a fuoco almeno le principali criticità che toccano coloro che, più o meno da volontari, nelle associazioni si impegnano con continuità. Come infilarsi in un ginepraio. «È un ambiente - lo descrive così Luigino Tasinato, segretario di Nidil - in cui è racchiuso il massimo della precarietà, sia dal punto di vista delle retribuzioni, sia sotto il profilo dei paracaduti sociali». Tradotto, quasi mai c’è chiarezza su buste paga e compensi in genere, e meno ancora su versamenti di contributi previdenziali e assistenziali. Molta gente, insomma, lavora senza nemmeno sapere di non avere assicurazioni o copertura delle malattie, e tantomeno quote che vanno alla gestione separata dell’Inps. Paradossalmente il dato di fatto è che in tutto questo non c’è nulla, o quasi, di illegale. La legge permette a chi operi nelle associazioni sportive senza scopo di lucro di ricevere fino a 10 mila euro l’anno (fino al 2017 erano 7.500) senza che l’importo vada a cumularsi con altri redditi e, in parallelo, solleva la parte datoriale dall’obbligo di corrispondere le relative quote agli enti di previdenza. Si può dunque comprendere, in queste condizioni, cioè senza doveri di rendicontazione e di documentazione di spese e compensi, come si siano moltiplicati gli escamotage per far rientrare fra le mansioni tipiche delle società sportive anche operazioni che con lo sport poco hanno a che fare.
«Si è arrivati al punto - spiegano i sindacalisti - di veder retribuite in questo modo anche le babysitter di figli di clienti frequentatrici di centri benessere». Un’altra faccia triste sta nella buona fede tradita di chi, spesso con passione e attaccamento ai colori della società sportiva, ha creduto di lavorare per anni senza invece rendersi conto di non aver maturato nel frattempo alcun diritto ad una pensione, anche minima. «Sono capitati dei casi in cui, letteralmente, persone inconsapevoli di questo, chiedendoci una consulenza e ricevendo una risposta chiara, sono scoppiate in lacrime». Naturalmente non mancano poi i giochi di sponda illegali, il più diffuso dei quali è la classica fatturazione gonfiata a favore di sponsor attraverso la quale il sostenitore privato può procurarsi liquidità in nero. Ma questo è un’altra area più per la Finanza che per la Cgil.
Quanti sono i lavoratori dello sport potenzialmente coinvolti in meccanismi distorsivi del lavoro di questo tipo? «Una stima esatta non c’è appunto perché fiscalmente queste società sono invisibili. Il Veneto, secondo la Regione - insiste il sindacato - si calcolano in circa 120 mila unità, al servizio di 5.500 associazioni alle quali si appoggiano 420 mila atleti. Nel Trevigiano le sigle dilettantistiche sono poco meno di 1.100 le quali operano a favore di 88 mila sportivi non professionisti».