Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Poeta solitario
«Omaggio a Gino Rossi», la mostra al Museo Bailo di Treviso curata da Marco Goldin e aperta fino al 3 giugno, è una occasione, ai settanta anni dalla morte del pittore veneziano che trascorse gli ultimi ventun’anni di vita nella reclusione degli ospedali psichiatrici, di dare giusta divulgazione alla materia delle poche opere autentiche di Rossi (è tutto uno sbocciare di dubbi ritrovamenti che spuntano da cassoni e armadi nelle soffitte venete), un centinaio o poco di più, compresi i disegni. Un corpus esiguo ma di novità e forza tali da costituire una pietra miliare nella storia dell’arte italiana, che molto spiega nello sviluppo delle neoavanguardie.
La mostra testimonia della sua ricerca, sempre autonomo e libero nel gesto pittorico e nel pensiero: in esposizione al Bailo accanto alle 10 opere di Rossi della collezione permanente, 8 prestiti da privati, di grande significato nella maturazione della poetica pittorica di Rossi.
Colto e insofferente, il giovane artista veneziano, lo sguardo rivolto alle novità oltreconfine, si distingue dai contemporanei scegliendo non la Secessione e il fermento di marca viennese o monacense, cercando la forma dell’immagine, nella pittura francese. I suoi viaggi tra il 1906 e il 1909 testimoniano il maturare di una vibrazione nuova che lo distingue e separa dal passo dei capesarini intorno alla figura di Barbantini in quel Palazzo Pesaro che Arturo Martini definirà «il primo movimento (artistico) vero in Italia, precursore dei movimenti moderni».
A Parigi scopre Gauguin, ed è passione immediata e, ancora, i Fauves, i Nabis e quel loro rapporto furente con il colore, poi la Bretagna. E la sezione dei paesaggi esposti al Bailo ci documenta su quella rielaborazione stilistica e cromatica, fatta di piccole aree definite da colori onirici, senza disegno: la deliziosa Parrocchia di Pagnano, ad esempio, così come la veduta dei colli di Asolo nella collezione del Bailo. Dopo la Bretagna, dove dipinge cose che non verranno mai esposte lui vivente, Gino Rossi si stabilisce a Burano con la moglie. Il tempo di Burano si rivelerà
Colori
Dall’alto, Gino Rossi, «Il muto» (1910), collezione privata, e «Paesaggio asolano (Monfumo)» (1912), Treviso, Museo Luigi Bailo l’età d’oro nella tragica esistenza dell’artista: produce opere che condensano le esperienze parigine e bretoni nella definizione di uno stile assolutamente innovativo, dal tratto rapido, essenziale. Sono le vedute sintetiche di villaggi sul mare, sono le celebri cittadelle distese nell’azzurro (tutte da godere nella mostra di Treviso). È il momento dei paesaggi dalle forme definite nei colori complementari che mostrano l’ardimento di visioni radicalmente altre rispetto alla tradizione paesaggistica, alla scuola dei Ciardi. Espone a Ca’ Pesaro tre opere che saranno per lui – e per l’arte dopo di lui- capitali: Il muto, Case a Burano e Fanciulla del fiore. Di queste, le prime due, ammalianti, sono di nuovo insieme al Bailo: Barbantini, riconosce l’eccellenza e la novità di quelle opere ma a Rossi - come ebbe a scrivere il pittore stesso - non interessava la fama, bensì il riconoscimento del valore della sua ricerca.
Percorre una strada solitaria, Rossi, è un precursore consapevole: espone con Martini, altro artista scomodo, si schiera contro l’ortodossia in nome di una dura purezza dell’arte. Parla di architettura dell’immagine, ritrae visi di umili, depredati della speranza, i colori si fanno rigorosi, linee cupe segnano i tratti di fisionomie non descrittive, non concilianti. E l’intento della «espansione» di Goldin alla collezione permanente del Bailo vuole esattamente sottolineare la stretta relazione artistica che intercorre tra Rossi e Martini: la grande raccolta delle sculture martiniane dialoga fittamente con i ritratti di Gino Rossi. Il loro sodalizio si interrompe quando venti di guerra agitano il Paese e travolgono il pittore – vedi le pagine mirabili di Comisso su Rossi soldato in I due compagni. Dopo la prigionia successiva a Caporetto, Rossi tornerà per sempre cambiato e con lui la sua arte, più rarefatta, più composta, più cezanniana.
Sono le poche opere dal 1919 al 1926 che dicono di un lavoro compositivo più spento nel colore, più strutturato nelle nature morte, nelle piccole vedute, mentre enormi difficoltà economiche ed esistenziali dilatano nella mente una falla incolmabile, un rovello rabbioso che lo condurrà nel definitivo abisso dei labirinti manicomiali.
Paesaggi
Gino Rossi, «Primavera in Bretagna» (1909 circa), Treviso, Museo Luigi Bailo Sopra, l’artista, morto a Treviso nel 1947
Laguna
Gino Rossi «San Francesco nel deserto» (1912-1913), collezione privata
Gino Rossi nasce a Venezia nel 1884 da Stanislao e Teresa Vianello. Abbandona gli studi, insofferente alla disciplina. Muore il padre nel 1901: nel 1903 sposa Bice Levi-Minzi, pittrice. Frequenta lo studio del pittore russo Scerescevskji, ottiene uno studio a Palazzo Pesaro; le opere di quel tempo sono andate perdute. Nel 1906, a Parigi, conosce la pittura dei Fauves e Gauguin. Nel 1908 partecipa alla prima Esposizione permanente d’arti e industrie a Ca’ Pesaro, organizzata da Nino Barbantini. È di nuovo in Francia, in Bretagna. Successivamente si stabilisce a Burano. Del 1910 sono La fanciulla del fiore, Case a Burano e Il muto. Con Arturo Martini è a Parigi dove espone al Salon d’Automne nel 1912, assieme a Modigliani e De Chirico. Viene lasciato dalla moglie. Nel 1913 conosce Giovanna Bieletto, sua compagna per anni. Di questi anni è l’amicizia con Casorati. Dipinge i colli del Trevigiano. Espone a Roma dove conosce Boccioni e i futuristi. Si trasferisce sul Montello nel 1915. Nel ‘16 è arruolato nei bersaglieri, espone a Verona. Con la disfatta di Caporetto viene mandato, prigioniero, in Germania. Nel ‘20 espone grazie a Casorati a Torino e partecipa alla esposizione al Lido dei «rifiutati» da Ca’ Pesaro. Torna a vivere con la madre sul Montello, aumentano le difficoltà economiche, aderisce alla Corporazione delle Arti Plastiche, è attivo a Padova e Treviso; insegna con grande fatica. Nel ‘26 due sue opere sono esposte alla Biennale, ma ormai Rossi è chiuso in un disagio mentale. Viene ricoverato con l’inganno e, salvo qualche mese di dimissioni, resterà ininterrottamente in ospedale psichiatrico - tra San Servolo, Mogliano, Crespano - per finire abbandonato nel suo silenzio, cieco, sfinito, a Sant’Artemio a Treviso dove muore il 16 dicembre del 1947.