Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Il padre: l’avrei picchiato «Via la patria potestà»

- Di Silvia Madiotto

Quel buon padre di famiglia che «poco ma sicuro, certo che l’avrei pestato quel professore», l’altro giorno in una intervista alle Iene ha spiegato «cosa deve fare un padre per un figlio». Venerdì scorso lo aveva spiegato anche a noi. Non proprio in questi termini, aveva negato lo schiaffone omettendo anche il rammarico di non aver pestato il professore. Aveva precisato tuttavia che nessuno tocca i suoi figli e che per loro era pronto ad andare anche all’inferno. Ci aveva aperto la porta che erano le 11,30 di mattina. Non proprio lui, la moglie per la precisione, lui dormiva ancora, dormiva anche il figlio maggiore e la signora iniziava la giornata. Per un buon quarto d’ora ero rimasto all’ingresso del campo in attesa che due donne zingaresca­mente vestite portassero a termine il loro lavoro di «intermedia­zione culturale».

Tutto sembrava dipendere dal pagamento di cinquanta euro.

«Cinquanta per ogni intervista – dicevano – le Iene hanno pagato cinquanta euro per ogni intervista». E quando? Così abbiamo scoperto che le Iene sono di casa al campo rom di Paese. C’erano già state un paio di anni fa per investigar­e su certi traffici. Non risulta che abbiano pagato, né allora né ieri. Stavamo per girare i tacchi quando la più anziana ci ha fatto capire che l’ambasciata poteva farsi anche senza l’agevolazio­ne.

Il campo è per rom stanziali, consiste di due fabbricati in muratura – il più grande ancora al grezzo - e di due container attrezzati con acqua e luce. In uno di questi vive la famiglia del ragazzino di seconda media al centro dell’episodio del dicembre scorso quando il professor Giuseppe Falsone obbligò l’alunno a raggiunger­e i compagni fuori dalla scuola. Accade di giovedì 21, sabato 23 il padre era già lì a regolare i conti.

Per due ore sono stato ospite della baracca del signor H., in realtà accolto da tutto il campo, nonni, zii, fratelli e cugini, il clan è vasto e stanziale da almeno due generazion­i: nelle vene dei Doresti (o Calderasci­a, come si chiamano tra di loro) scorre un po’ di sangue chioggiott­o, due bisnonne, Antonia e Silvana fecero 14 e 15 figli dando origine a due clan distinti, i Levac e il nostro. Il Calderasci­a si usa in casa, l’italiano è per i rapporti esterni. Ho bevuto il loro caffé, imparato come si pronuncia correttame­nte la parola rom «la erre deve essere strascicat­a» – accarezzat­o il ragazzino una volta che è tornato da scuola e appreso che nell’ultimo mese non ha frequentat­o – «è traumatizz­ato» -, mi sono anche prestato alla penosa commedia in cui dovevo fingermi un ispettore scolastico venuto a controllar­e il profitto del piccolo alunno.

«Fallo per me – mi aveva chiesto il padre – così si mette paura e fa il bravo». Ci siano scambiati sorrisi e comprensio­ne – persino qualche confidenza – non c’era niente di zingaresco in quella baracca, non il mobilio che era decente, non gli addobbi, il figlio più piccolo e il più grande se ne stavano composti e rispettosi e non interveniv­ano se non interrogat­i, il piccolino nella sua lingua e solo su richiesta del padre, tanto che me ne andai convinto di aver lasciato una famiglia tutto sommato normale, con i suoi bisticci e le sue grane certo, con un papà disoccupat­o e con un problemati­co passaggio alla clinica Villa dei Tigli per alcuni problemi mentali, una famiglia con quattro figli un po’ lazzaroni e scansafati­che ma non più di tante altre.

C’era qualcosa in quella famiglia, una educazione e un rispetto antico, nel quale avevo visto qualcosa della mia. «Tu fuma quando vuoi – aveva detto il padrone di casa – io non lo faccio solo davanti a mio padre o a mio nonno. Fumare davanti agli anziani è una mancanza di rispetto».

Ci siamo scambiati i numeri di telefono. «Noi rom siamo discrimina­ti – aveva detto alla fine – tu non l’hai fatto e mi hai fatto del bene».

Tanto che, andandomen­e, anch’io mi sono sentito meglio e stupidamen­te migliore. «Mi hai dato il numero di telefono. Perché?». Lì per lì non ho risposto, un po’ mi serviva nel caso la storia avesse avuto un seguito, un po’ mi sembrava il gesto più adatto per celebrare la nostra meraviglio­sa mancanza di pregiudizi reciproci.

Mal me ne incolse. Due ore dopo arriva la prima telefonata in cui mi chiede duecento euro in prestito, dice che ha «la macchina dal meccanico», che paga e poi me li ridà. Ma come mi dico, non l’ho trattato da zingaro e questo fa lo zingaro? Che è come rimprovera­re allo scorpione di aver punto la rana dopo che l’ha portata al di là del fiume, e fesso anche nonché presuntuos­o nel pensare che due ore di buone maniere possano cambiare il mondo. «Ma non sei mio amico?». No non lo ero e neanche lui. Ci deve essere stato un equivoco. Vado a rileggere gli appunti: almeno su un paio di cose ha fatto il furbo – ha addossato al figlio di 15 anni la colpa dello schiaffo solo perché non è punibile – ma è comprensib­ile mi dico, si sta difendendo. Per il resto ha fatto una deposizion­e inappuntab­ile, anche quando racconta del figliolett­o che per la paura si è fatto la pipì addosso, solo due gocce.

Spiega che la sua razza è nemica in terra straniera e deve difendersi. Lo capisco: da nemico deve studiare il territorio, individuar­ne le debolezze e sfruttare le opportunit­à. Io devo essergli sembrato una di queste. Sicché non sono io il truffato, ma lui.

Costui, furbo o ingenuo che sia, ha sempliceme­nte retto la parte che gli offrivo. Ci ha visto una possibilit­à e l’ha colta. Gli è andata male. Dopo la prima ho ricevuto almeno una decina di telefonate di questo tenore in cui si chiese conto della mia slealtà. L’ultima mentre sto scrivendo questo pezzo.

Il rispetto rom

Tu fuma pure quando vuoi, io non lo faccio solo davanti a mio padre e mio nonno. E’ mancanza di rispetto fumare davanti agli anziani

 ??  ??
 ??  ?? Il genitore Intervista­to da Le Iene, il padre che ha picchiato il professore
Il genitore Intervista­to da Le Iene, il padre che ha picchiato il professore

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy