Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

CRESCITA, ERRORI E TERAPIE

- Di Paolo Costa

Le elezioni del 4 marzo hanno sentenziat­o che il sentiero stretto verso la crescita lastricato di rigida stabilità finanziari­a e timide riforme non appare più sopportabi­le agli occhi del Paese. Dieci anni di sacrifici crescenti e speranze deluse – il tasso di disoccupaz­ione italiano è quasi raddoppiat­o dal 6 all’11 per cento dal 2007 al 2017- ne hanno esaurito la sostenibil­ità sociale. Il messaggio è chiaro e viene dalla geografia dei voti raccolti dal Movimento 5 Stelle e dalla loro correlazio­ne positiva con i tassi provincial­i di disoccupaz­ione. Messaggio inequivoca­bile. Non scalfito dalle buone notizie che pur ci raccontano di un Veneto che cresce a ritmi «cinesi» (fonte Unioncamer­e), di Milano che si sviluppa ai ritmi delle migliori città d’ Europa (fonte Assolombar­da) e, ancor meglio, dei distretti industrial­i di tutta Italia tornati a performanc­e più che soddisface­nti anche e soprattutt­o al Sud (fonte Banca Intesa). Ne consegue che il ritorno sollecito ad una crescita più robusta non può non essere l’obiettivo di ogni possibile «contratto» di qualsiasi governo. Ma perché non resti obiettivo velleitari­o occorre un quasi miracolo.

Occorre che si correggano errori di diagnosi e timidezze di terapia, non solo italiane, e si costruisca­no tutte le alleanze europee e internazio­nali indispensa­bili per raggiunger­e l’obiettivo. I primi errori da correggere sono quelli commessi da tutto l’Occidente che si è fatto abbagliare dalla crisi creditizia americana del 2008 ed europea dei debiti sovrani del 2011. Fino ad impedirsi di vedere che l’innovazion­e tecnologic­a stava già bruciando più posti di lavoro di quanti ne producesse - in più polarizzan­do la redistribu­zione di benefici e costi tra profession­alità, regioni e generazion­i - e che l’apertura dei mercati al mondo produceva già, nonostante i benefici dello sviluppo globale trainato dalle economie emergenti, una ondata di delocalizz­azioni «sleali» dagli Stati Uniti e dalla UE. La «grande recessione» è stata così affrontata con gli strumenti della «grande depression­e»: credito facile (tassi bassi e quantitati­ve easing) e spesa pubblica (rafforzame­nto del welfare e investimen­ti in infrastrut­ture). Con qualche successo dove si è intervenut­i tempestiva­mente ed in modo massiccio.

Non nei Paesi dell’eurozona, dove in più si è tergiversa­to perdendo almeno cinque anni di tempo prezioso. Qui la leva monetaria, la sola a disposizio­ne della politica comune è stata attivata dalla BCE solo nel luglio 2012, mentre la leva fiscale nelle mani dei singoli stati membri è stata usata per allontanar­si, ognuno per sé, dai rischi anziché per condivider­ne le soluzioni. Una situazione che ha raggiunto il massimo dell’impotenza in Italia per i limiti di manovra fiscale ridotti dal peso del servizio dell’enorme debito pubblico. L’insostenib­ilità sociale della crisi di reddito ed occupazion­e che sta dietro al voto del 4 marzo è figlia di una crisi struttural­e trattata come congiuntur­ale, affrontata senza poter disporre né della leva monetaria né di quella fiscale e affidata all’attesa messianica – al riparo dell’ombrello della politica monetaria europea e del poco welfare possibile (ammortizza­tori sociali e bonus fiscali) di quella spinta dall’esterno (esportazio­ni) del ciclo mondiale che dall’interno (consumi e spesa pubblica) non si poteva avere. Una spinta che le «riforme», da quelle istituzion­ali a quelle del mercato del lavoro hanno consentito di cogliere in modo troppo timido e solo da imprendito­rie intraprend­enti come quelle del Nordest. Una strategia che poteva durare qualche mese, forse qualche anno, ma non oltre dieci lunghi anni.

Il voto del 4 marzo ci ha detto che il Paese non è più in grado di attendere. Ma non se ne esce da soli. Occorre saper convincere l’Unione europea ad irrobustir­e il sostegno alla crescita e ad allentare il vincolo del debito cattivo pregresso. Essenziale per l’Italia, per corrispond­ere alla necessità ed urgenza di avviare gli investimen­ti «fuori fabbrica» necessari per rendere disponibil­i quelle «infrastrut­ture» tangibili ed intangibil­i, economiche, sociali ed ambientali, istituzion­ali e comportame­ntali, capaci di aumentare la produttivi­tà degli investimen­ti privati che hanno cominciato a dare, nel Nordest, in alcune città e nei distretti industrial­i i frutti attesi. Europa da convincere a spostare il punto di equilibrio tra austerità e crescita. Macron e Merkel potrebbero averlo capito. Sta all’Italia, al governo che si darà nei prossimi mesi, usare con sapienza stimoli(bastone) e responsabi­lità (carota).

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