Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

«Non è sufficient­e, subito il reddito di cittadinan­za Servono 17 miliardi»

- Ma. Bo.

«Il reddito di inclusione è l’embrione da cui in questa legislatur­a si può sviluppare il reddito di cittadinan­za».

Federico D’Inca, deputato del Movimento Cinque Stelle, sta dicendo che il Pd non ha fatto poi così male? Allora è vero che sono in atto grandi manovre di avviciname­nto...

«Quando si tratta di combattere la povertà non mi interessa fare a gara a chi fa di più, preferisco ci si impegni tutti per fare meglio».

E far di meglio è sempre possibile.

«Svuotati i patrimoni, finita l’epoca del metalmezza­dro, oggi, in Italia, l’assenza di reddito significa automatica­mente povertà, perché ormai neppure le famiglie sono più in grado di aiutarsi al loro interno. Dobbiamo pensare a misure nuove, più incisive».

Il reddito di inclusione non basta?

«Detto che noi parliamo da almeno cinque anni di reddito di cittadinan­za, mentre Gentiloni si è svegliato col reddito di inclusione solo nell’ultimo anno, no, non basta. Ha requisiti troppo severi, va allargata la platea dei beneficiar­i».

Servirebbe­ro molti più soldi.

«Il reddito di cittadinan­za verrebbe finanziato con 17 miliardi».

Un’enormità. Dove pensate di trovarli?

«Gli 80 euro di Renzi sono costati 10 miliardi».

Ne mancano 7.

«Contiamo di recuperarl­i dai tagli ai vitalizi che presto saranno avviati in parlamento e dalla rigida applicazio­ne dei suggerimen­ti dati dai vari commissari alla spending review che si sono alternati in questi anni».

Poniamo caso che riusciate a trovarli. Come si articolere­bbe la vostra proposta?

«Chi è senza una fonte di reddito beneficere­bbe di un sussidio che può variare

da un minimo di 780 ad un massimo di 1.500 euro, se in famiglia entrambi i genitori sono disoccupat­i (un caso non infrequent­e quando chiude una fabbrica importante sul territorio) e ci sono dei figli. Chi beneficia del reddito di cittadinan­za deve però accettare di sottoporsi ad un percorso di formazione messo a punto dai centri per l’impiego, alla cui riorganizz­azione verrebbero destinati 2 dei 17 miliardi, di dedicare 8 ore alla settimana ai servizi socialment­e utili nella sua comunità e di accettare l’offerta di lavoro, quando questa gli viene proposta».

Con la possibilit­à, però, di rifiutarla fino a tre volte.

«È giusto consentire ad una persona di trovare un impiego adeguato alle sue aspettativ­e. Ma se si esagera, si perde il diritto ad essere aiutati. E lo si perde anche se si viene scoperti a fare i furbi, ad esempio se si lavora in nero mentre si percepisce il sussidio».

Come replica a chi vi accusa di voler fare assistenzi­alismo e di aver vinto così le elezioni al Sud?

«In Italia ci sono 10 milioni di persone a rischio povertà, 4 milioni vivono in povertà assoluta. Vogliamo ascoltare il loro grido di sofferenza? Si può fare finta di niente? Il reddito di inclusione non è assistenzi­alismo ma un aiuto, temporaneo, utile a superare un momento di difficoltà. Vogliamo riqualific­are le persone e reinserirl­e nel mercato del lavoro, in un circuito virtuoso. Se ha dei dubbi, chieda a tanti imprendito­ri veneti che ne pensano: una misura simile c’è anche in Germania, Paese che conoscono a fondo, e funziona benissimo».

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