Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Dylan in Veneto Stile crooner e i classici rivisitati
I concerti di Jesolo e Verona, palco sobrio e niente schermi
Omero e Ulisse, l’autore e il personaggio, si sovrappongono se si parla di Bob Dylan. Se un bagaglio fatto di 56 anni di canzoni, 38 album in studio e riconoscimenti come il Premio Nobel possono ascrivere Dylan nel numero dei giganti dell’arte, è con quella scelta del 1988 di trasformare la propria vita in un eterno «Never Ending Tour» che Dylan si è trasformato in Ulisse. Giovedì al Palazzo del Turismo di Jesolo e, ieri sera, all’Arena di Verona (entrambe le date non sold out), il cantautore di Duluth era accompagnato sul palco da «His band» che lo segue in giro per il mondo da trent’anni, superando i 2930 concerti di una tournée infinita che ha perso la bussola per Itaca. Ma, nonostante tutto, una prima volta per Dylan può ancora esistere. E giovedì sera quella novità è stata proprio Jesolo, un luogo mai toccato nelle sue peregrinazioni live. Verona, l’Arena ha un significato tutto particolare per «His Bobness».
Qui nel maggio 1984 aveva tenuto il suo primo, grande, live italiano (anticipato da Santana), qui era tornato nel 1987 per una tappa della tournée congiunta con il rocker (scomparso ad ottobre) Tom Petty e i suoi Heartbreakers. Quando Bob Dylan sale sul palco, non si torna indietro nel tempo. Neppure un attimo di nostalgia. Non è ammessa. Non è permessa. Ogni brano, ogni canzone, che abbia 10 o 60 anni, torna a essere nuova, reinventata e riletta, esaltata e stravolta. Il palco è sobrio ed elegante, nessuno schermo, solo strumenti e luci. Dylan non parla al pubblico, comunica con la propria arte. E lo fa da fuoriclasse assoluto, seduto o in piedi davanti ad un pianoforte a mezza coda, unico strumento che suonerà. L’attacco è con
Things have changed che gli è valso l’Oscar, poi
Don’t think twice, It’s all right brano ce ha 55 anni ma che Dylan sublima con un arrangiamento di una delicatezza sconvolgente. Altri classici, Highway 61 revisited è una bordata dell’essenza del rock, Simple twist of fate è morbidissima. Duquesne whistle è il primo dei tanti gioielli di Tempest (2012), che, con cinque brani, resterà il disco più suonato del live. Degli ultimi anni imperniati sul recupero del repertorio che fa capo a Frank Sinatra, passano tre canzoni che costringono Dylan a cantare in piedi trasformandosi in un grande crooner. Alla fine dei 20 brani proposti, nei bis si intuisce Blowin’ in the wind, condotta sulla strada della rassegnazione più che della speranza, mentre Ballad of a thin man del ‘65 ha un graffio rock ancora da rivoluzione.