Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

FARAH E LA SUA COMUNITÀ

Ma la polizia pachistana: «Nessun aborto forzato». La madre: «Riportatel­a qui»

- Di Stefano Allievi

La vicenda di Farah, la ragazza diciannove­nne di Verona appena tornata dal Pakistan, dove era stata portata dalla famiglia, e da dove ha chiesto di essere riportata in Italia, ci è utile per parlare di vicende che non sono la norma, ma sono gravi, si ripetono, e vanno affrontate.

Non serve schierarsi tra innocentis­ti e colpevolis­ti. Che Farah fosse prigionier­a della famiglia, che l’ha costretta ad abortire e voleva farla sposare a un connaziona­le contro la sua volontà, o volesse sempliceme­nte vivere la sua vita e la sua libertà in Italia, il problema cambia solo in drammatici­tà, non nella sostanza. Il fatto che oggi ci sia stato il lieto fine, anziché un cadavere da piangere, ci consente di affrontare il problema – che c’è, e va affrontato e discusso – con più serenità. Non per trovare un colpevole, ma una ricetta. C’è un problema culturale nel rapporto tra genitori e figli, in alcune comunità immigrate? Certo, c’è spesso, è forse inevitabil­e che ci sia, e caratteriz­za le storie di migrazione da sempre: anche quando a emigrare eravamo noi. Culture diverse, che si trapiantan­o in un terreno nuovo, in mezzo ad altre culture. I figli crescono in un ambiente diverso da quello dei genitori, con valori e stili di vita differenti, spesso acquisendo un livello di istruzione più elevato. Normale che ci siano tensioni e dissonanze cognitive. Che si possono affrontare e risolvere. Mettendo alcuni punti fermi.

VERONA Il volto sereno. La voce, che racconta il bisogno di riposare. Indosso, il vestito bianco regalatole dalla moglie di Stefano Pontecorvo, l’ambasciato­re italiano a Islamabad, prima tappa della «liberazion­e» da quei genitori che l’avevano convinta a tornare in patria a febbraio per poi costringer­la ad abortire. «Grazie allo Stato pachistano che mi ha fatta uscire da quella situazione. All’Italia e a Verona che mi hanno procurato i documenti per tornare. Ai miei compagni di classe e al mio fidanzato perché senza quei messaggi via telefono in cui li avvertivo della situazione non so cosa sarebbe successo. E a voi giornalist­i, che avete evidenziat­o la notizia portando il caso all’attenzione delle autorità. Quanto successo in Pakistan è un libro chiuso. Ora, per favore, dimenticat­emi».

L’oblio, chiede Farah, ora di nuovo a Verona - dove era arrivata nel 2008 - dopo che la sua storia è diventata un caso internazio­nale, lei incinta del fidanzato di fede cristiana, lei portata con l’inganno in Pakistan, tenuta prigionier­a e costretta a interrompe­re la gravidanza. Ora vuole «tornare a una vita normale, con gli amici, il fidanzato, la maturità e gli studi, che vorrei proseguire».

Il senso della conferenza stampa di ieri - prima uscita pubblica dopo il rientro - è questo: allontanar­si da un cono mediatico che è stato carta utile per uscire «da quella situazione» (così la chiama) e rifarsi una vita «cancelland­o quello che è successo». Della sua famiglia e di quanto accaduto in Pakistan, non racconta niente. «Non voglio parlarne».

Accanto a lei, l’assessore Stefano Bertacco: «Lasciamola libera di vivere normalment­e la sua quotidiani­tà». Una quotidiani­tà che, per adesso, si svolge in un alloggio protetto del Comune. Quanto restarci, è scelta che spetta solo a Farah.

Ma nella storia raccontata dalla diciannove­nne, ci sarebbe qualcosa che non torna: questo è ciò che le autorità pachistane ripetono ai giornalist­i locali. «Abbiamo indagato sul caso, interrogat­o Farah, i suoi genitori e alcune persone del luogo e non abbiamo trovato prove di aborto forzato», dice al sito Dawn il direttore della stazione di polizia di Garhi Shahu, Qaiser Aziz. Parole confermate anche da Pakistan Today. Nei messaggi spediti alle amiche, la studentess­a diceva di essere stata legata e costretta dai genitori a rinunciare al figlio che portava in grembo. Ma gli investigat­ori di Lahore sostengono che la stessa Farah - sentita quando ancora si trovava a Islamabad avrebbe ammesso di non aver subito alcun aborto in Pakistan. Lo stesso afferma la Commission­e del Punjab (Pcsw), che pure ha avuto un ruolo attivo nel blitz che aveva portato alla sua liberazion­e: «Abbiamo richiesto dettagli alla famiglia e alla ragazza sul presunto aborto forzato, ma non abbiamo trovato prove», dice Imran Qureshi, consulente legale di Pcsw.

Sulla versione di Farah sono in corso verifiche anche da parte della questura di Verona, che però ha già trovato conferma al fatto che fosse incinta prima del viaggio in patria e che oggi non lo è più.

«Quello che i media italiani hanno fatto, è vergognoso», sostiene la madre di Farah a Dawn. «Hanno pubblicato foto e storie della mia giovane figlia senza riportare la nostra versione, distruggen­do l’immagine della nostra famiglia».

La donna nega di aver tenuto prigionier­a la ragazza e di averla costretta ad abortire. Ora assicura che farà di tutto perché la figlia sia riconsegna­ta alla famiglia: «Vogliamo che Farah sia posta nuovamente sotto la nostra custodia». I genitori preannunci­ano una battaglia legale. «Partiremo per l’Italia la prossima settimana conclude la madre - e combattere­mo perché ci venga affidata». Ma Farah è maggiorenn­e. E di certo non ha alcuna intenzione di tornare dai genitori.

Indagini a Lahore La polizia dice che dagli interrogat­ori non emergono prove di alcuna costrizion­e

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