Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Il capo, il campo, i bambini «Rubare, sempre sbagliato» «Non se devi sfamare i figli»

- Di Andrea Priante

PADOVA Il campo nomadi di via Longhin, periferia di Padova, è un insieme di casette di cemento a ridosso del fiume. All’ingresso, chiuso nel recinto, un pitbull abbaia furioso e la statua di Padre Pio osserva i bambini venirci incontro di corsa, curiosi, mentre una ragazzina ne approfitta per avvicinars­i alle piscine gonfiabili e sfuggire alla calura.

Gli adulti sono seduti in un angolo, all’ombra, intorno a un fornellett­o da campo collegato alla bombola del gas, dove Vania ha messo a bollire una pentola d’acqua. Il nome è di fantasia, perché così pretende il capofamigl­ia: un omone di 38 anni che se ne sta spalmato su una sedia di tela in maglietta e pantalonci­ni. L’altra condizione per consentirc­i l’accesso al campo, è che il fotografo se ne stia alla larga.

Vania ha 25 anni e due figli. «Vanno entrambi a scuola», rivendica con orgoglio. Non è facile essere rom ai tempi in cui Salvini se ne esce con la proposta di «censire» i nomadi per «tutelare prima di tutto migliaia di bambini ai quali non è permesso f re - quentare la scuola regolarmen­te perché si preferisce introdurli alla delinquenz­a». Ma è proprio per i più piccoli, che nel campo di via Longhin l’integrazio­ne si sta facendo sempre più complicata. «Con i compagni di classe vanno d’accordo - assicura la mamma - però sono sempre “bollati” come nomadi. Ad esempio non possono avere la festa di compleanno perché i genitori dei loro amici non li lascerebbe­ro mai venire qui». Ci guardiamo intorno. Scordatevi gli zingarelli vestiti di stracci che si aggirano tra pozzangher­e di fango e am- massi di lamiere: quest’area è pulita e ordinata, qualcuno si è ritagliato perfino un piccolo giardino. Ma per quanto gestita con dignità, resta sempre un’accozzagli­a di caravan e prefabbric­ati. «Non è così che volevo crescesser­o i miei bambini: ci sono giorni in cui manca l’acqua calda e non possono fare il bagno, e allora mi vergogno a mandarli a scuola perché puzzano...».

Giovanni spiega che nel campo vivono circa 120 persone, che però possono arrivare a duecento. «Se mi assegnasse­ro una casa popolare, me ne andrei s ubito » , a ggiunge. «Qui c’è di tutto: gente onesta e gente disonesta. Per i ragazzini non è un bell’esempio». Si tocca un nervo scoperto: quello dei furti. Giovanni ha una teoria tutta sua, quando sostiene che «rubare è sbagliato ma se lo si fa per mantenere la propria famiglia allora è giustifica­bile ». Van ialo interrompe: «Rubare è sempre sbagliato. Punto e basta».

Il capofamigl­ia spiega che le parole di Salvini l’hanno ferito. «Certo che siamo preoccupat­i: uno dei primi provvedime­nti di Hitler fu proprio quello di schedare i nomadi. E poi è andata a finire come sappiamo». Discutendo delle idee del ministro, i toni si infiammano. Un’anziana agita il dito: «È razzista». Un ragazzo, magro come un chiodo, sostiene che «Salvini deve solo provarci a venire qui e vedrà che fine gli facciamo fare...». Ma il capofamigl­ia riporta la calma: «Se al governo non va bene come viviamo, allora ci dia una mano a cambiare. In queste case che ci ha dato il Comune, piove dentro e hanno dimenticat­o di costruire le camere...». Non è uno scherzo. Marika ci invita a entrare. Ci sono una cucina spaziosa, un piccolo corridoio e un bagno. Nient’altro. «Avevano promesso che avrebbero allargato ogni abitazione, in modo da ricavare delle stanze da letto ma non l’hanno fatto. La mia famiglia è composta da otto persone: la sera c’è chi dorme sul divano e chi su delle brande. La cucina è la nostra camera».

Mauro èil « gr a nde ve c- chio» del campo. E questa cosa della «schedatura» proposta da Salvini proprio non la capisce. «Perché vuole farlo? Io sono italiano, mica può cacciarmi via. Che ci provi a farlo...», e con le dita mima il gesto di estrarre due pistole dal cinturone.

L’acqua del pentolone ha cominciato a bollire e Vania butta le tagliatell­e all’uovo. «C’è troppo razzismo nei nostri confronti. Ai colloqui di lavoro veniamo scartati non appena leggono la residenza sulla carta d’identità. Via Longhin significa una cosa sola: il campo nomadi. E dire “rom”, anche per i padovani, è come dire ladri».

Ripetono di sentirsi soli. L’unico a non averli abbandonat­i è don Albino Bizzotto. «Quello è un ghetto» ammette il fondatore di Beati i costruttor­i di pace. «Basterebbe “spalmare” i nomadi nella città, offrendo delle soluzioni abitative. Ma nessuno vuole risolvere davvero la questione. E intanto Salvini cavalca il disagio per ottenere voti: ragiona da leader di partito, invece che da ministro».

Vorrei che i miei figli crescesser­o altrove: a volte manca perfino l’acqua calda

 ?? (foto archivio) ?? Le «casette» Una delle abitazioni realizzate dal Comune nel campo di via Longhin a Padova. Sono sprovviste di camere da letto
(foto archivio) Le «casette» Una delle abitazioni realizzate dal Comune nel campo di via Longhin a Padova. Sono sprovviste di camere da letto

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