Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Capitano suicida a Kabul e blindati irregolari: assolti tutti gli ufficiali

Caso Callegaro, per i giudici «il fatto non sussiste»

- Priante

VENEZIA «Il fatto non sussiste». Non commisero alcun peculato, né una truffa, i 5 alti ufficiali dell’esercito implicati nell’inchiesta sulle scarse blindature dei mezzi militari in Afghanista­n. Si tratta dell’indagine seguita al suicidio del capitano rodigino Marco Callegaro, morto a Kabul nel 2010. La sentenza è del Tribunale militare di Roma.

VENEZIA Tutti innocenti, perché «il fatto non sussiste». Non commisero alcun peculato, né tantomeno una truffa, gli alti ufficiali dell’esercito implicati nell’inchiesta sulle scarse blindature dei mezzi militari in Afghanista­n. Si tratta dell’indagine seguita al suicidio del capitano rodigino Marco Callegaro, trovato morto nel suo ufficio a Kabul il 25 luglio del 2010.

La sentenza di assoluzion­e è stata emessa dal tribunale militare di Roma nei confronti dei cinque imputati: il generale Giuseppe Rinaldi e il colonnello Sergio Walter Maria Li Greci dell’Aeronautic­a; e i colonnelli Amedeo De Maio, Pasquale Napolitano e Ignazio Orgiù dell’Esercito. Un sesto indagato, Antonio Muscogiuri, si era impiccato il 6 aprile 2017 dopo aver ricevuto l’avviso di conclusion­e delle indagini.

Per l’accusa, erano coinvolti nell’inchiesta sulla blindatura - più leggera e quindi meno costosa di quella pattuita - dei veicoli civili destinati ai militari di vertice e alle personalit­à in visita al contingent­e italiano in Afghanista­n. I sospetti scaturiron­o in seguito all’inchiesta aperta (e poi archiviata) dalla procura di Roma che inizialmen­te ipotizzò che qualcuno potesse aver istigato al suicidio il capitano Callegaro, 37 anni, originario di Gavello (Rovigo) ma che viveva a Bologna con la moglie e i figli.

Familiari e amici non hanno mai creduto all’ipotesi di un gesto estremo. «Me l’hanno ammazzato perché aveva scoperto le irregolari­tà che avvenivano a Kabul», ha sempre ripetuto il padre del soldato, Marino. E anche ora che il processo ha dimostrato l’assoluta innocenza degli imputati, questo settantenn­e rodigino non si arrende: «Purtroppo me la sentivo che sarebbe andata a finire in questo modo, anche se un’assoluzion­e piena fa ancora più male. Ho scritto due volte alla procura militare di Roma per essere sentito come testimone nel processo, ma non mi hanno mai nemmeno risposto». Per Marino Callegaro, la morte del figlio continua a restare senza risposta. «Quella maledetta notte in Afghanista­n – spiega – nessuno sentì lo sparo della pistola. Avrei tanto voluto spiegare questa stranezza ai giudici...».

La moglie del capitano, Beatrice Ciaramella, si limita a dire che «mi dispiace. Avevo sperato in una svolta ma immaginavo questo finale...».

In attesa di conoscere le motivazion­i della sentenza (attese entro sessanta giorni), resta che i cinque indagati - ai quali, inevitabil­mente, si aggiunge il povero Muscogiuri - hanno saputo dimostrare la loro innocenza. In una email spedita al Corriere del Veneto, il colonnello Pasquale Napolitano ricorda i patimenti sofferti a causa di questa vicenda giudiziari­a: «Cinque ottimi ufficiali dagli specchiati curricula messi alla gogna perché accusati di peculato, ma ancor più grave l’aver collegato il loro comportame­nto con la morte di un collega (...) una Procura Militare che ha speso centinaia di migliaia di euro per condurre questa inchiesta nella quale veniva contestato agli imputati di aver intascato appena 36mila euro (...) Tutto ciò per cosa? Per costruire un castello di sabbia che si è disciolto appena il carteggio è arrivato in dibattimen­to istruttori­o presso il Tribunale Militare di Roma».

Soddisfatt­o anche l’avvocato Gianfranco Ceoletta, che difendeva Amedeo De Maio: «Tutti gli imputati hanno sofferto moltissimo, sia dal punto di vista personale che profession­ale, per le accuse che per tanto tempo sono state mosse contro di loro. Finalmente il processo ha dimostrato che non hanno commesso alcun peculato, ma soprattutt­o che il capitano Callegaro si è ucciso per la depression­e di cui soffriva, non certo perché istigato dai cinque superiori».

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Il capitano Marco Callegaro, il soldato rodigino suicida a Kabul nel 2010

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