Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Gli spari all’immigrato che lavora
Colpi di carabina esplosi da un disoccupato, operaio ferito. «Volevo colpire i colombi»
CASSOLA (VICENZA) Viaggio a Cassola, piccolo centro berico, in cui un disoccupato quarantenne ha sparato con una carabina a pallini a un operaio di colore che stava montando le luminarie per la festa del paese. L’uomo si è difeso dicendo che, dal terrazzo di casa, in realtà mirava a un colombo. La vittima, originaria di Capo Verde, se la caverà in sette giorni e dice: «Non voglio credere che quell’uomo mi abbia sparato perché sono di colore.
CASSOLA (VICENZA) Forse non è proprio il Far West a cui si riferisce il presidente Mattarella, qui siamo più dalle parti del baraccone razzista, quello del tiro a segno con bersaglio cromatico: l’odiante s’annoia, esce sul balcone, prende la mira e spara al primo nero che passa, come ad un orsacchiotto, come fosse ad una sagra di paese.
Gode, di nascosto vede l’effetto che fa, poi si nasconde e spera di farla franca. Non è andata così a Cristian Damian Zangari, 40 anni, disoccupato di origini argentine, l’uomo che l’altro ieri, a Cassola, dopo mezzogiorno, presa posizione sul terrazzo condominiale con la carabina comprata da poco, ha inquadrato nel mirino telescopico l’elettricista che gli lavorava davanti in piazza, alto su una scala e gli ha sparato colpendolo alla schiena.
«Volevo colpire un colombo» ha detto ai carabinieri. Non gli han creduto ovviamente. Il fatto è che, ancora adesso, gli stessi carabinieri non sanno a che cosa credere: il bersaglio - che per fortuna sta bene e se la caverà in sette giorni - era già un indizio, un nero, un giovane operaio originario di Capo Verde in Italia da 17 anni il cui colore della pelle, li per lì, se non una spiegazione sembrava un movente plausibile per quanto esecrabile. Ma il movente razziale non emerge, o almeno non sembra esserci e lo stesso cecchino nega di aver sparato per quello. Non c’erano busti del Fuhrer in casa – un dignitoso appartamento in affitto sopra la banca con tanto di compagna e figlio piccolo - non c’erano bandiere uncinate o pubblicazioni suprematiste, niente del genere nel suo passato che gli inquirenti non abbiano frugato senza cavarne niente di più di quello che in paese sanno tutti: che l’argentino era a Cassola da cinque anni, che era disoccupato e che viveva di lavoretti.
«Uno tranquillo a prima vista, di fronte al quale il balordo sembro io. Guardi i tatuaggi che ho sul braccio. Certo, uno incasinato, e chi non lo è, uno che non aveva i soldi per riparare la macchina (una Opel Corsa male in arnese, ieri parcheggiata per tutto il tempo sotto casa), ma li aveva per comprarsi una carabina ad aria compressa. E già questo non lo capisco. Non si sa niente di cosa passa nella testa di un individuo».
Chiacchiere da bar come questa – l’argentino abita sopra il bar – si raccolgono facilmente, sono tutte vaghe e insondabili, tutte improvvisamente mute di fronte alla domanda sul chi sia realmente Cristian Damina Zangari, l’inquilino che esce sul terrazzo e spara al nero. Valgono di più le facce e le espressioni, che sono di disagio e di estraneità. Estraneità soprattutto, come a voler dire che il diverso è lui e non il nero colpito.
Dal 17 luglio, in Italia, si sono avuti sette casi di tiro al nero o al rom, dal più grave - Luca Traini a Macerata che al grido di «viva l’Italia» «vendicò» la morte della diciottenne Pamela ferendo sette persone – al più recente dell’ex dipendente del Senato che spara e colpisce una bambina rom di 17 mesi, il caso che ha indignato il presidente Mattarella.
L’argentino di casa nostra – tornato a casa nostra, di origini venete a quanto pare - non rivendica, non dice, se ne sta muto davanti agli inquirenti ripetendo la tesi fanciullesca del tiro al piccione.
Bambino, delinquente e presuntuoso era convinto di passare inosservato dopo aver lasciato traccia del suo passaggio da cecchino, parte delle munizioni erano ancora in terrazza. La porta più vicina era quella del suo appartamento, il fucile era sopra l’armadio, in camera da letto, e lì i carabinieri l’hanno trovato dopo qualche insistenza.
Lenine Delgado invece è la vittima. Operaio elettricista, 33 anni, da 14 per la stessa ditta a Vicenza, a Isola Vicentina con la sua compagna, una triestina. «L’altro ieri ero a Cassola e non è la prima volta che ci andiamo: per il Comune curiamo i lampioni, le plafoniere e tutto il resto. Giovedì stavamo lavorando alle luminarie per la festa del paese. Il giorno prima, una signora, vedendomi alto sulla piattaforma della gru mi ha chiesto se per favore gli levavo le foglie dalla grondaia. L’ho fatto con piacere e lei mi ha offerto il caffè. Questo per dire che il razzismo non lo conosco e non voglio farne parte neanche dalla parte della vittima. Ha sparato perché sono nero? Non lo so, preferirei di no, ma non c’erano colombi sugli alberi quel giorno, troppo caldo anche per loro. C’ero io, con una imbragatura fatta a croce che mi copriva parte della schiena. O sono sfortunato io o lui ha mirato molto bene perché mi ha preso qui dietro all’altezza del rene. Ho sentito il pof del pallino che bucava la maglietta e entrava nella pelle. Ho pensato a una vespa. Mi sono toccato con la mano ed è lì, in quel momento, che devo aver fatto cadere il piombino perché non l’hanno trovato. Il resto lo sapete».
La vittima
Ha sparato perché sono nero? Non lo so, mi auguro di no. Ma non c’erano colombi sugli alberi quel giorno. O sono sfortunato io o lui ha mirato molto bene