Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Donne nel pallone: «Noi professioniste come i maschi»
VERONA «Perché una donna non può vivere di sport?». La domanda di Silvia Fuselli è la domanda che il movimento del pallone femminile pone ai vertici del calcio e all’Italia. Anni 37, toscana, cinque scudetti in curriculum, Fuselli ha giocato ieri nel Verona e gioca oggi nel Chievo Verona Valpo, ramo rosa nell’albero dell’altro club scaligero, ragazze da serie A. C’è anche lei, allora, tra le giocatrici che protestano con la Corte federale d’appello. Perché? Perché la Corte, giovedì scorso, ha respinto la delibera con cui a maggio il commissario straordinario Figc, Roberto Fabbricini, aveva previsto il passaggio del calcio femminile dalla Lega Nazionale Dilettanti alla Figc stessa, cioè ai professionisti.
Riassumiamo, Fuselli?
«Il succo è che interrompendo il passaggio alla Figc è stato dato un grandissimo stop al processo di crescita del nostro movimento. Molti non lo sanno ma in Italia c’è una legge del 1981 che non prevede il professionismo per le atlete donne, in nessuno sport. Penso a basket, pallavolo, ciclismo, motociclismo: la stessa Federica Pellegrini rientra nei dilettanti».
Conseguenze del non essere professioniste?
«Zero coperture assicurative e contributive. La maggior parte di noi deve crearsi alternative valide durante e dopo il calcio. Io sono tra le fortunate, nel corso degli anni sono riuscita a viverci anche grazie alla Nazionale, con molti sacrifici, viaggiando tanto, allontanandomi da casa. A un certo livello alcune di noi ne hanno fatto un lavoro ma con quei deficit che rimangono. Ti fai male? Devi pagarti le terapie. Non tutte hanno la fortuna di essere in un club come il nostro, dentro il Chievo, con strutture mediche ad hoc. Così molte lavorano, altre studiano, altre magari smettono e vanno a lavorare».
Nel commentare la storia recente di Isabelle Yacobou, cestista del Famila Schio rimasta incinta, un’altra ex del club vicentino, Katrin Ress, ha ricordato di quando a Taranto scoprì la gravidanza, era luglio e l’assenza di un inquadramento professionistico permise alla società di stracciarle il contratto.
«Quando parlo di tutele parlo anche di maternità, sì. È un momento che capita e spesso le società non sono disposte a rispettare il contratto. Così un’atleta deve smettere e poi riprendere».
Lei ha iniziato a giocare nel ‘96: da allora come ha visto cambiare il calcio femminile?
«Evoluzione molto lenta. La Lega Nazionale Dilettanti ha investito poco. Negli ultimi due-tre anni c’è stato un passettino un po’ più deciso, è vero, dovuto all’ingresso nei club di squadre maschili. Certo è che siamo indietro rispetto all’Europa: tolta la Germania con la sua tradizione storica, Francia, Spagna, Svizzera, tutte hanno fatto tanto. Qua siamo tra gli ultimi. È un problema culturale. E intanto questo passo indietro ha creato disagi anche sui tesseramenti: siamo tornate ai vecchi contratti con 10 mensilità sottoforma di rimborsi spese, cioè ferie non pagate».
L’Associazione Italiana Calciatori ha sede in Veneto, a Vicenza: ha parlato con il presidente, l’ex campione veronese Damiano Tommasi?
«Avrò modo di sentirlo. In questi anni spesso si è interessato ai nostri problemi. Con i consiglieri Aic c’è un contatto costante».
L’idea di scioperare?
«Non posso ancora dire niente, dobbiamo riunirci, di certo è un momento cruciale. Da vent’anni il calcio femminile non arrivava al Mondiale. Fermarsi ora, annullando il passaggio al professionismo, vuol dire tornare indietro».
Da vent’anni il calcio femminile non fa il Mondiale. Annullare il passaggio al professionismo vuol dire tornare indietro