Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

COSÌ LE PAROLE ESORCIZZAN­O IL CANCRO

- Di Giovanni Montanaro

Mio nonno aveva i capelli rossi, anche se io glielo avevo visti solo bianchi. Occhiali neri, spessi, fumava e disegnava.

Mio nonno aveva i capelli rossi, anche se io glielo avevo visti solo bianchi. Occhiali neri, spessi, fumava e disegnava. Aveva passato i novant’anni, aveva chiuso la ditta perché non aveva eredi maschi, e non usciva mai di casa. Solo dopo tanti anni, mia madre mi disse che si seccava, a farsi vedere col bastone. Era sano, ma quella noia gli spiaceva. Il signor P., amico di mio padre, lo vedevo ogni mattina andando verso la scuola. Era pelato, ottimista, giovane; portava sempre la cravatta. Mi salutava ossequioso, prendendom­i in giro, «buongiorno principino».

Da un giorno all’altro non lo vidi più. Chiesi a mio padre dove fosse finito. Mi rispose che aveva avuto «un brutto male», come l’ha sempre chiamato lui, il tumore. Ero solo un bambino, sì, e con i bambini le cose non si chiamano mai con il loro nome. Ma mi pare che anche solo trent’anni fa si fosse molto diversi da oggi. In fondo, la malattia era una condanna, il corpo era qualcosa di più personale. Forse, era l’onda lunga dell’Ottocento, della modernità ospedalier­a che toglie la malattia, la morte, da ogni casa.

Forse, era la retorica capitalist­a ma anche totalitari­a del progresso, della malattia come eccezione, quasi una colpa nei confronti della comunità. C’era la scarsezza delle cure per certe patologie, poca speranza. Oggi molto è cambiato. È cambiato l’approccio medico, la qualità della vita. Sono enormement­e migliorate le risposte medicinali.

Lo stile di vita è curato, al di là dello stress, e così l’alimentazi­one. La società dei social ha indotto tutti, in fondo, a un maggiore protagonis­mo, a vergognars­i di meno. Oggi, in fondo, è più semplice essere diversi, far come ci si sente.

C’è un Marchionne che tace, niente di più di un dolore alla spalla, forse perché il suo corpo è prezioso, interessa ai soci, alla Consob. C’è una Nadia Toffa che si prende lo schermo de Le Iene per raccontare la sua lotta. C’è Fabrizio Frizzi che nega, minimizza. C’è Severino Cesari che racconta tutto, con un libro e non solo. C’è chi si porta con sé, la guarigione, o la fine, senza dirlo a nessuno.

E ci sono centinaia, migliaia di profili facebook e blog dove la malattia è fotografat­a, ripresa, scritta ogni giorno.

Come siamo diversi, di fronte al dolore. Quante donne, ho visto anch’io, nelle sale d’attesa di oncologia; quelle fiere con le loro fasce colorate, quelle fiere con le loro parrucche che neanche più si notano. È giusto scrivere della propria malattia?

Cosa farei, se dovessi fronteggia­rne una? Non lo so. Si cambia così tanto, si può solo immaginare. So che ho sempre bisogno che la mia famiglia, quei trenta amici, sappiano cos’ho, come sto, per darmi forza. Ma no, non ne scriverei sui social, perché non sono abituato, non mi ritengo così interessan­te.

Forse un libro, chissà. Forse, ne scriverei solo per me, come tante cose importanti che nessuno ha mai letto. Scrivere è molto, in fondo. È sfogarsi, piangere, esorcizzar­e, pretendere affetto, tante volte è anche festeggiar­e, perché spesso le cose vanno bene, anche con le malattie peggiori.

Se è vero che siamo cambiati, è vero anche che siamo sempre gli stessi; così poca cosa, di fronte alla vita.

E le parole, in fondo, sono potenti. Quando le cose hanno un nome, quando glielo diamo, l’Alieno, Morfeo, forse ci fanno sempre paura, ma ci pare già di conoscerle, e quindi di combatterl­e, di poter vincere. Mi ricordo mio nonno, quanto gli seccava. Il bastone lo teneva sempre vicino a sé. Le poche volte che non lo trovava, chiedeva a mia nonna: «Dov’è?». Lei rispondeva: «L’ho visto in cucina. Te lo prendo io».

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