Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
NON PARLO DI TE SEI IL MIO NEMICO NON PERDO TEMPO
Io, a te, non ti racconto. Perché da dirti non ho nulla. E non ho nulla da dire di te al mondo. Perché sei il nemico che devo combattere.
Io, a te, non ti racconto. Perché da dirti non ho nulla. E non ho nulla da dire di te al mondo. Perché sei il nemico che devo combattere. E non ti concedo neanche l’«onore delle armi» se non di quelle sotto forma di farmaci che devo ingollare ogni giorno per sconfiggerti. Le parole, il racconto, sono il mio mestiere e la proiezione di me stessa. E regalarle a te, il mio cancro, è un lusso che non posso ma sopra a tutto e a tutti - non voglio permettermi. Perché si sa, o meglio lo sa solo chi con te deve imparare a conviverci, tu potrai (spero anche no) prenderti la mia vita. Ma io non ti regalerò il mio tempo. Se non quello strettamente necessario - e non è affatto poco — che dedico alle cure. Non avrai neanche le mie parole, tranne queste. Era l’ottobre di due anni fa, quando ti hanno scovato. E se altri ti hanno estirpato chirurgicamente, io ho iniziato a farlo mentalmente. E nel cuore. Non ti ho rifiutato. Non ho girato la testa dall’altra parte. Ho condiviso - e lo faccio ogni giorno ancora - la mia guerra con tutti coloro che mi vivono accanto e che tra i vari reparti ho conosciuto e sono diventati i compagni di viaggio più preziosi.
Nessuna vergogna a parlare di te. Ti sbandiero, eccome. Quando c’è da parlare di come sconfiggerti. Dell’importanza della prevenzione, delle cure. Ma non ti racconto. Non hai più l’aurea nefasta di anni passati, quando dire che uno «ha un tumore» implicava l’uso della voce bisbigliante e il sottointeso della morte. Grazie alla ricerca hai perso anche la tua antica patina di paura. Di te parlo e, guarda un po’, ti schiaffo anche sul giornale. Ma quel tempo che pensavo come tutti fosse infinito e che invece grazie a te ho scoperto poter essere evanescente, proprio a te non lo concedo. Ognuno, nella sua personale guerra contro il cancro, decide le proprie armi. Non quelle curative, che sono e devono essere affidate ai medici. Ma quelle lenitive. Quelle che, oltre al cancro, ti curano l’anima. E lì ogni opzione è aperta, condivisibile. Illimitata. Comprensibile in toto, però, solo a chi percorre quel guado. E allora ci sta sia la voglia di raccontarlo, che quella di non dare spazio. Ci sta farne un «diario», ma anche silenziarlo. Ho chiesto ai miei colleghi un favore. Di non usare mai il termine «male incurabile». Al limite, come dice il mio medico, l’unico aggettivo che ti si può applicare è quello che risulta dalla sostituzione della lettera «r» con una «l». Perché ogni patologia che porta alla morte, anche la più banale, se ha quell’esito può definirsi «incurabile». Neanche in questo il cancro riesce ad essere originale. Io non sono la mia malattia. Sono un codice «048», quello che la burocrazia dedica alle malattie neoplastiche, solo sulla mia tessera sanitaria. Non nella mia vita. La mia malattia è parte di me il tempo necessario per le cure. Niente di più. De Andrè diceva che «dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fiori». Io racconto i boccioli. Lo stallatico che è il mio nemico lo condanno all’oblio. E oggi gli ho dedicato anche troppo del mio tempo.