Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
VENEZIA SI SALVA CON LA CINA
Il «settembre (in) nero» veneziano (il nero della cravatta, quello richiesto dai cerimoniali delle molte manifestazioni che vanno dall’apertura della Mostra del Cinema al Premio Campiello passando per la Regata storica) ha una sua retorica e una sua liturgia consolidata; che prevede, tra l’altro, il reiterarsi di diagnosi e prognosi sullo stato e le prospettive della città e della sua laguna. Esercizio purtroppo bloccato da tempo su una lista di problemi irrisolti (completamento del Mose, controllo dei flussi turistici, grandi navi, moto ondoso in laguna ...) per lo stallo decisionale che affligge «immobiland» e le sue istituzioni, ma al quale non si sottraggono i ministri di turno che si affacciano per l’occasione alla ribalta veneziana, di persona o in via mediatica.
Il rito si è ripetuto anche quest’anno.
Il governo legastellato si è finora presentato con il volto del vicepresidente e ministro dell’interno Salvini, con quello del ministro dei beni culturali Bonisoli e con i messaggi del ministro delle infrastrutture e dei trasporti Toninelli e di quello per il turismo Centinaio (da copione mancherebbe ancora il ministro dell’ambiente) che hanno apoditticamente annunciato le loro terapie, rigorosamente scoordinate e contraddittorie nello stile che drammaticamente caratterizza l’azione del «governo del cambiamento».
La sola novità è venuta dal ministro Bonisoli che, oltre ad ipotizzare ricette, ha avanzato tre domande.
Cosa sarà Venezia tra dieci anni? Quanti turisti vogliamo accogliere? In quale visione di Venezia si colloca il problema del suo turismo? E’ rispondendo a queste domande che si può costruire la visione, come si dice oggi, che consenta di riordinare il puzzle veneziano. Alle domande di Bonisoli è «facile» rispondere. Senza interventi che invertano la tendenza la Venezia di fra dieci anni avrà completato la separazione tra l’urbs e la civitas. Il costruito storico insulare si sarà liberato della comunità dei veneziani, tutti condannati alla diaspora, e verrà conservato e tramandato dai «padroni» dell’offerta turistica per la gioia del mondo, che da Venezia vuole solo questo — vedere le pietre di ieri — con il tragico avallo dell’Unesco. Se il «principe» lo vorrà, sopravviverà come in una riserva indiana qualche attività culturale, peraltro sempre rileggibile anche in termini di attrazione turistica. Il fenomeno coinvolgerà anche la terraferma che concentrerà ulteriori residenze turistiche funzionali alla visita «downtown Venice». È ancora invertibile il processo? Possiamo immaginare di fissare noi il numero di turisti da accogliere e di farlo rispettare? Esercizio utile, ma che passa per un riduzione dell’ offerta turistica per liberare spazi per altre attività produttive e residenziali. Politica durissima per un obiettivo velleitario; perché — «è la globalizzazione bellezza!» — a Venezia siamo comunque di fronte ad una offerta limitata, lo spazio fisico di Venezia insulare, che si confronta con una domanda turistica mondiale illimitata. La sola possibilità di resistere a questa pressione globale sta nel contrapporle una pressione altrettanto forte e globale, capace di contendere anche il patrimonio edilizio veneziano all’industria turistica, ma soprattutto di far riparlare Venezia di nuovo attraverso la civitas – gli uomini di domani -- e non più solo attraverso l’urbs —le pietre di ieri.
Una possibilità c’è stata e forse c’è ancora. Quella materializzatasi insperatamente per una iniziativa che non è né locale, né regionale, né statale. E forse per questo colpevolmente sottovalutata. La più fondata possibilità di vedere tra qualche anno un albergo veneziano riconvertito in uffici o residenze sta nella capacità –nel coraggio-- di capire e prendere sul serio il messaggio che la Cina di Xi Jinpin lancia ripetutamente da almeno tre anni: Venezia come terminale occidentale della Via della Seta. Un progetto italo-cinese capace di «rottamare» a favore dell’Italia, dell’Alto Adriatico (e quindi anche di Venezia) e, in tandem, dell’Alto Tirreno (incentrato su Genova) l’intera catena logistica delle relazioni commerciali tra l’Estremo Oriente, da una parte, e l’Europa , dall’altra. Un progetto capace di cambiare la faccia del nostro Paese. A partire da quella delle terre attorno a Venezia –da Ravenna a Trieste, dal Brennero a Tarvisio-- dal lato adriatico, e attorno a Genova, dal lato tirrenico. Un progetto di un’enorme ambizione, anche nazionale, perché imporrebbe all’Italia di confrontarsi alla pari con la Cina anche in nome dell’Europa. Troppo ambizioso? Sì, se guardiamo al nostro tran tran attuale. No, se guardiamo a quello che succede nel resto del mondo. Quel mondo che, lo vogliamo o no, sarà lui a condannare o salvare Venezia.