Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Case e imprese, Gheddafi milionario «nullatenente»
Ros tra Verona, Vicenza e Padova. Ditte spolpate e nel «feudo» di Zimella il capo risolveva anche le liti di vicinato
VENEZIA C’è una famiglia mafiosa che da trent’anni vive in Veneto e che sarebbe riuscita non solo a infiltrarsi nelle aziende fino a spolparle, riducendo sul lastrico diversi imprenditori, ma - soprattutto - avrebbe saputo ricreare a Zimella, un piccolo paese del Veronese, quelle dinamiche da «feudo» ‘ndranghetista tipiche di alcune zone della Calabria, con il boss che viene chiamato a vigilare sui «forestieri» e a dirimere le beghe tra vicini di casa.
L’indagine, condotta dal Ros di Padova e coordinata dal pm Paola Tonini della Dda di Venezia, è culminata all’alba di ieri con sette arresti e una ventina di perquisizioni in tutta la regione. In carcere sono finiti il capofamiglia Domenico «Gheddafi» Multari e i fratelli Fortunato e Carmine (quest’ultimo è l’unico a risiedere nel Vicentino, a Lonigo); l’imprenditore veneziano Francesco Crosera e il calabrese Dante Attilio Mancuso, 63 anni. Ai domiciliari, invece, il figlio del boss, Antonio Multari, e il calabrese Mario Falbo. Tra gli indagati, anche l’altro figlio del boss, Alberto. Sono accusati, a vario titolo, di reati che vanno dall’estorsione alla violenza, dal trasferimento fraudolento di valori alla resistenza a pubblico ufficiale, fino all’incendio e alla tentata frode processuale. Il tutto - per alcuni degli indagati - con l’aggravante delle «modalità mafiose».
A colpire, però, sono soprattutto i comportamenti («anche penalmente irrilevanti, ma significativi», ha sottolineato il comandante del Ros, Elvio Sabino Labagnara) di persone «normali»: negozianti, piccoli imprenditori e alcuni abitanti di Zimella, dove il boss abitava in una «villa hollywoodiana», come l’ha definita il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese. Le intercettazioni - scrive il gip Barbara Lancieri nell’ordinanza - «appaiono emblematiche del ruolo che veniva attribuito al Multari da vicini e conoscenti che si rivolgevano a lui confidando nelle sue conoscenze e nella capacità di esercitare un potere negli ambienti criminali, così da risolvere loro i problemi». È come se i veneti avessero improvvisamente perso quegli anticorpi che finora li avevano tenuti alla larga dai mafiosi (Mala del Brenta esclusa, naturalmente) costringendo le cosche a utilizzare il Nord soprattutto come «lavatrice» del denaro sporco o per tentare di insinuarsi nelle imprese.
A Zimella chiunque sa chi è Domenico Multari da Cutro, provincia di Crotone: un ‘ndraghetista legato alla famiglia Grande Aracri. «Domenico, Fortunato e Carmine: tutti affiliati», assicura il pentito Salvatore Cortese. «Gheddafi», come è soprannominato in alcune informative dell’antimafia, «per accreditare la propria qualità di boss, mostrava un’altra faccia - scrive il gip di Venezia - manifestando grande disponibilità nel risolvere i problemi di chi gli chiedeva aiuto, evitando loro il fastidio di rivolgersi alle forze dell’ordine». Come nel dicembre 2017, quando lo chiama un conoscente lamentando di aver subito il furto di materiale nel suo capannone. Multari nel giro di poco individua il responsabile ma scopre anche che i due si sono querelati a vicenda, e quindi fa da «mediatore» per risolvere la controversia. Intercettato, lo si sente raccomandare: «Domani mattina dovete andare insieme in caserma a ritirare le denunce (...) vi dovete sedere a tavola e parlare come persone... Se no, dopo mi metto in mezzo io, e quindi...». Alla fine, hanno verificato i carabinieri, la querelle si era risolta come voleva il capofamiglia. Altro caso il 15 febbraio 2018, quando una negoziante di Zimella chiama il boss spiegandogli di aver notato una vettura, con all’interno una persona che «teneva d’occhio» il quartiere: «Fa un po’ paura insomma, eh, scusami...».. Tempo 24 ore ed è proprio Domenico
Multari a chiamare i carabinieri per segnalare l’auto sospetta e dettare la targa. E sempre al boss, infine, negli ultimi mesi hanno chiesto aiuto le vittime di furti di auto e computer.
«Sono segnali pericolosi, perché dimostrano che anche in Veneto la criminalità organizzata mafiosa si presenta come soggetto che risolve i problemi e viene riconosciuto dal “mondo esterno”» ammette il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi. Dall’inchiesta emergono una serie di reati. Comprese le minacce subite dai custodi giudiziari del tribunale di Verona che avevano il compito di mettere all’asta la villa, oggetto di una procedura esecutiva perché nessuno provvedeva a pagare le rate del mutuo. Con l’immobile all’asta, la famiglia faceva di tutto per far desistere i possibili acquirenti dal fare un’offerta. Riuscendoci. Con il custode giudiziario, «Gheddafi» era ancora più esplicito: «Avvocato, io la sto rispettando perché se no la prendo a calci nel c. Io la rispetto altrimenti la squartavo con una mannaia». Poi se ne vantava al telefono col suo legale, raccontando: «Gli ho detto: avvoca’, lei non ha capito un c. dalla vita, perché te stai uscendo con le tue gambe, non te lo ho squartate a due. Che vuoi più dalla vita?». E quando il custode ribatte che avrebbe chiesto l’intervento delle forze dell’ordine, il boss non fa una piega: «Io i carabinieri non li chiamo, li faccio lavorare».
Ancora più gravi le vicende che ruotano intorno al costruttore veneziano Francesco Crosera (leggi l’articolo a pagina 7) che si rivolse ai Multari per dare fuoco allo yacht di un rivale, e quelle di due imprenditori veneti la cui unica colpa è stata di mettersi in affari (leciti) con il boss: da benestanti si sono ritrovati senza più un soldo, disoccupati, separati e con la casa pignorata.