Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Cera, il libero dell’Azteca: «Ma l’impresa fu lo scudo con Scopigno»

UN VERONESE DAL CAGLIARI ALLA PARTITA DEL SECOLO

- Di Daniele Rea

Se c’è uno che può farsi chiamare capitano quello è lui. Perché quando sei capitano del Verona a 22 anni, quando nel pieno della maturità atletica e personale porti la fascia al Cagliari e vinci lo scudetto, quando verso il tramonto sei il leader anche al Cesena, allora vuol dire che tu con i gradi tatuati sulla pelle ci sei nato.

E che capitano, per altro. E che libero. Uomo da leggende Pierluigi Cera, 78 anni, veronese della bassa nato a Legnago, tanto più straordina­rio quanto più è passato attraverso 21 anni di profession­ismo, tutti in serie A, con la tranquilli­tà di chi si alza tutte le mattine alle 7 per andare in fabbrica o in ufficio. Leggende come il titolo vinto con il Cagliari nel 1970, il primo scudetto di una provincial­e, ad aprire la strada ad altri trionfi non meno banali come quelli del Verona di Bagnoli o della Samp di Boskov, ma che sarebbero venuti dopo e in un diverso contesto. Sicurament­e in un calcio proiettato ormai fuori dal bianco e nero, non ancora preda del ciclone mediatico ma non più antico. Leggende come la «partita del secolo», il 4-3 tra Italia e Germania ai Mondiali del 1970, allo stadio Azteca di Città del Messico, i 120 minuti più epici della storia del calcio. Cera stava lì a dividere l’onere di difendere la porta di Albertosi con Burgnich, Facchetti e Rosato. E ancora la finale, dopo quel favoloso 16 giugno, la sconfitta 4-1 col Brasile di Pelè, una sconfitta che secondo il veronese sta fin troppo larga agli azzurri ma senza rimpianti. Una carriera iniziata in serie A nel 1958 con il Verona, a 17 anni, contro il Milan di Schiaffino e Liedholm e terminata, come la parabola infinita di una respinta dalla difesa, nel 1979 a Cesena. Da capitano, che discorsi sono, conquistan­do con i romagnoli anche una storica qualificaz­ione alla Coppa Uefa.

Avversari tignosi, attaccanti di gran classe, fenomeni del calcio da marcare senza concedere sconti. Tamponare, chiudere, correre, mettere una pezza dove serve. Rilanciare, impostare, aprire il gioco. Segnare poco, si capisce, ché spingersi all’attacco non è la specialità della casa: 479 partite in serie e 11 reti, 18 presenze con la Nazionale e zero reti. Ma poco conta quando si è al servizio della squadra per definizion­e. L’orgoglio è quello di essere stato il primo libero moderno, antesignan­o degli Scirea e dei Tricella che, poi, diranno di essersi ispirati proprio al 6 di Legnago nel proporre il gioco. Niente male per uno che il calcio ha rischiato di vederlo solo in tv, visto che il dribbling più secco gli toccò piazzarlo in casa per aggirare i veti del padre: famiglia alto borghese quella dei Cera, papà Ferruccio direttore di banca e così amante del pallone da non aver mai messo piede in uno stadio.

Cera, partiamo da casa: possiamo dire che l’avversario più tosto lo trovò tra le mura domestiche?

«Mio padre la vedeva così: primo lo studio e poi il resto. Prima ti diplomi e poi fai quello che vuoi». Dove ha iniziato?

«In una squadretta al mio paese, a Legnago, poi il Verona venne a visionarmi a passai in gialloblù a 16 anni. Erano venuti a vedermi anche altre società

ma per mio padre, direttore della Mutua Popolare, il calcio non era nemmeno un modo per guadagnars­i il pane». Magari avrà cambiato idea quando lei ha esordito in serie A, a soli 17 anni... «Mica tanto... Una domenica vengo espulso e il tutto finisce sul giornale. Il lunedì mi convoca in banca e mi apre il giornale in faccia: quella cosa per lui aveva screditato il buon nome della famiglia, pretendeva che chiedessi scusa e smettessi con il calcio. Per fortuna poi si è ammorbidit­o un po’». Come è arrivato al Cagliari?

«Per caso. A Verona avevo i miei affetti, mi volevano una decina di squadre ma in quegli anni il Cagliari riceveva grosse sovvenzion­i dal Credito Industrial­e, aveva buone possibilit­à economiche e la spuntò su tutti. Alla fine ci sono stato dieci anni, ho fatto il capitano e ho vinto lo scudetto. Anni bellissimi, non dimentiche­rò mai l’amore e il calore della gente sarda per la squadra». Riva, Albertosi, Domenghini, Gori, Nenè... Insomma, non uno squadrone ma quasi. Fu una sorpresa quello scudetto? «Comunque sì, secondo me potevamo vincerlo anche nella stagione prima, giocavamo pure meglio. Eravamo primi alla fine del girone di andata, poi ci siamo persi». Figura da romanzo Manlio Scopigno, l’allenatore: uno dei grandissim­i del tempo, il filosofo del pallone... «Un grande, Scopa... Sempre tranquillo, sapeva sdrammatiz­zare qualsiasi situazione, non alzava mai la voce e parlava poco. Grande ironia e grande cultura al servizio del calcio». Ma è vero che quando la trasformò per necessità da mediano a libero le disse che la marcatura più stretta andava fatta sul vostro stopper Niccolai? «È vero sì... Niccolai, che io chiamavo con affetto Agonia, era un

buon difensore ma aveva il difetto di centrare la nostra porta ogni tanto... Peccato che sia passato alla storia per quello, perché era un bel giocatore, si esaltava con i migliori». Possiamo dire che Cera è stato il primo libero moderno?

«Credo di sì, quando Scopigno mi propose il cambio di ruolo dopo l’infortunio di Tomassini fui chiaro: va bene, dissi, ma lo faccio a modo mio. Certo non mi metto a stare dietro e spazzare la palla, non fa per me». E Scopigno?

«Disse che per lui andava bene». Cera, e la stanza del fumo di Asiago?

«Stavamo in ritiro, in dieci nella mia stanza: tutti fumavano, si giocava a carte e c’era qualche bottiglia “sospetta”... Scopigno entra, si fa largo nella nebbia, si accende a sua volta una sigaretta e fa: “disturbo, se fumo?”. Tutto qui, niente urla, niente strepiti. E dopo mezzora eravamo a nanna».

Cera, veniamo alla Nazionale: quel 4-3 del 16 giugno 1970, Italia-Germania. Lei fu tra i protagonis­ti per i 120 minuti: è d’accordo con la definizion­e di «partita del secolo»? «Ma per niente... Fino al 90’ è stata una partitacci­a eh, sia chiaro, il bel calcio è tutta un’altra

La stanza del fumo

Ritiro a Asiago con il Cagliari, in dieci in una stanza a fumare e giocare a carte nella nebbia: entra Scopigno, ci guarda uno per uno, si accende una sigaretta e fa: «Disturbo se fumo?»

cosa. Possiamo parlare al massimo di supplement­ari del secolo, questo sì». E la finale con il Brasile? Avete pagato la fatica di aver dovuto giocare due ore?

«Secondo me, no. Si giocava a 2.500 metri di altitudine, aria rarefatta. Il nostro gioco era tutto palla lunga e correre in fascia, il Brasile giocava corto, tocchi veloci e scambi. E comunque era una squadra fortissima». Il 4-1 sembra parlare chiaro...

«Non tanto, abbiamo preso un paio di gol da polli, soprattutt­o quello di Carlos Alberto. E comunque fino al gol di Gerson, cioè quasi al 70’, eravamo ancora 1-1». Lei ha chiuso a Cesena, ancora da capitano dopo Verona e Cagliari: un destino?

«Magari era per il mio carattere, tranquillo ma deciso. Ho chiuso nel 1979 e poi ho fatto il ds. Ci siamo tolti belle soddisfazi­oni, ho lanciato giocatori come Agostini, Rizzitelli, Comandini... Poi basta, mi sono stancato e ho chiuso senza rimpianti». E adesso?

«Faccio il nonno e mi godo la vita» Il calcio lo segue ancora volentieri?

«Certo, allo stadio ci vado poco ma in tv mi piace seguire un po’ tutto. Vedere per l’ottavo anno di fila vincere la Juve toglie un po’ di pathos, chiaro, però è vero che chi vince ha sempre ragione».

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Leggenda Cera, capitano del Cagliari, in Coppa dei Campioni e all’Azteca prima di ItaliaGerm­ania 4-3, terzo da sinistra

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