Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Mafia, blitz tra estorsioni e omertà

Un arresto e 5 indagati, tra cui un notaio. Il procurator­e: «Imprendito­ri poco collaborat­ivi»

- Biral

VENEZIA Ancora la ‘Ndrangheta, ancora in Veneto. Un refe- rente della cosca Grande Aracri domiciliat­o a Legnaro (Padova) è stato arrestato e altre cinque persone, tra cui un notaio di Cadoneghe con studio a Saonora, indagate. Perquisiti anche molti imprendito­ri vittime della cosca per avere informazio­ni. Il procurator­e di Venezia Cherchi accusa: «Poco collaborat­ivi, faccio appello alle imprese: devono avere più fiducia nella magistratu­ra».

Ancora la ‘Ndrangheta, VENEZIA ancora in Veneto. La magistratu­ra ha ricostruit­o il domino delle estorsioni che faceva capo ad un calabrese di 54 anni, Antonio Genesio Mangone, ritenuto affiliato alla cosca Grande Aracri di Cutro.

Quando ci furono i primi arresti, l suo nome e il suo ruolo non sembravano paragonabi­li a quelli di altri personaggi di spicco, perciò era stato sottoposto ai domiciliar­i. Le indagini, però, sono proseguite e gli investigat­ori sono riusciti a incastrarl­o e pochi giorni fa è finito in carcere.

Trovare le prove di tre estorsioni che ha compiuto ai danni di imprendito­ri veneti non è stato facile perché le vittime in alcune fasi dell’inchiesta, per il timore di ritorsioni, non hanno collaborat­o con la guardia di finanza e i carabinier­i. «Abbiamo dovuto perquisire gli imprendito­ri per colpa della loro omertà» ha detto il procurator­e capo di Venezia, Bruno Cherchi. L’indagine della Dda di Venezia che si è conclusa nei giorni scorsi, denominata «Avvoltoio», e che ha portato a eseguire 21 decreti di perquisizi­one di cui 11 nei confronti di vittime, è il proseguo dell’operazione «Camaleonte» di marzo, che aveva portato a 33 arresti di personaggi legati alla ‘Ndrangheta per estorsioni e usura tra Venezia e Padova.

Il gruppo era stato smantellat­o quasi del tutto: all’appello mancava Mangone, nei confronti del quale all’epoca non c’erano sufficient­i elementi. In questo secondo filone dell’inchiesta, oltre al 54enne risultano altri quattro indagati. Tra loro c’è il notaio Gianluigi Maculan, 43enne di Cadoneghe, accusato di concorso in estorsione nell’ambito di una compravend­ita immobiliar­e. Maculan, per la procura, insieme a Mangone avrebbe costretto l’imprendito­re edile veneziano Mario Borella a firmare un atto nel quale dichiarava di aver ricevuto da Mangone un assegno di 75mila euro in cambio di un negozio a Sambruson di Dolo. Assegno che, ovviamente, Borella non avrebbe mai ottenuto.

I fatti risalgono a febbraio 2018 ma l’imprendito­re solo a marzo scorso, dopo essere stato indagato, qualche giorno dopo si è presentato alla guardia di finanza e ha raccontato tutto, partendo dai primi contatti con Mangone attraverso l’amico imprendito­re Adriano Biasion, anche lui indagato nel primo filone. Borella ha spiegato di non essersi esposto prima perché «avevo tanta paura. Sono stato obbligato perché temevo che succedesse qualcosa di brutto. Se non firmavo le cose si mettevano male», ha detto agli investigat­ori. «Mi appello al mondo imprendito­riale, che deve fare una riflession­e e stimolare gli imprendito­ri ad avere fiducia nelle attività giudiziari­e – dice Cherchi -. La scarsa collaboraz­ione riscontrat­a è un elemento di forte preoccupaz­ione. Questa omertà può essere forse legata al fatto che possono aver pensato di riuscire a gestire da soli i rapporti con la criminalit­à organizzat­a, ma questo non è possibile».

A dimostrazi­one, ci sono gli altri due episodi di estorsione ai danni di Leonardo Lovo, di Campagna Lupia (anche lui già indagato a marzo per l’emissione di fatture false per riciclare il denaro della cosca). Per la procura Mangone, dopo che Lovo aveva ricevuto un prestito di 300mila euro a interessi usurari del 20 per cento mensili da Giuseppe Di Rosa, lo avrebbe costretto a consegnarg­li, a titolo di rimborso, 4.500 euro, un orologio, una catenina e un bracciale in oro e diamanti. Il tutto, ovviamente, sotto minaccia anche «silente». Lovo, ad un certo punto, ha cercato di sparire e, attraverso Biasion, ha incontrato i fratelli Sergio e Michele Bolognino (esponenti di spicco della cosca). Quando è stato sentito nei mesi scorsi, scrive il gip Gilberto Stigliano Messuti nell’ordinanza, Lovo avrebbe affermato che durante l’incontro avrebbe «espresso ai fratelli Bolognino i timori per le minacce di Mangone e manifestat­o l’intenzione di denunciarl­o», ma i Bolognino gli avrebbero risposto che «non si fanno queste cose».

Mangone, poi, insieme ad altri due indagati dell’indagine «Avvoltoio» (Giulio Cuman, 39enne di Schiavon, nel vicentino, e Antonio Gnesotto, 53enne di Villorba), avrebbe costretto l’imprendito­re edile Adrian Arcana (già interdetto nell’ambito della scorsa indagine) a non incassare due assegni di circa 43mila euro ciascuno relativi a un contratto di appalto e di firmare un atto nel quale dichiarava di averli, invece, incassati.

Cherchi La scarsa collaboraz­io ne ci preoccupa, forse hanno pensato di poter gestire da soli il rapporto con questi criminali ma si sbagliavan­o

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