Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
La grande Compagnia del Disastro
Al tempo dell’alluvione del ’66 avevo 11 anni. L’acqua del Piave, che esondò, arrivò di notte e fece tremare la casa ed entrava dalle fessure delle porte e delle finestre e pareva non fermarsi mai. Noi piccoli ci chiedevamo proprio questo: si fermerà tutta questa acqua? Sfortuna, diceva mio padre.
Al tempo dell’alluvione del ’66 avevo 11 anni. L’acqua del Piave, che esondò, arrivò di notte e fece tremare la casa ed entrava dalle fessure delle porte e delle finestre e pareva non fermarsi mai. Noi piccoli ci chiedevamo proprio questo: si fermerà tutta questa acqua? Sfortuna, diceva mio padre.
Dopo, abbiamo spalato fango, seppellito i conigli annegati e i topi. A trenta chilometri di distanza era andata sott’acqua anche Venezia e noi, una fetta del Veneto di costa, eravamo uniti, alluvionati, quasi fosse una condizione umana.
Eccezionale, si disse allora. Acqua Granda, si dirà, come a battezzare un muro liquido con un nome, a dargli un posto nel mondo, una identità. Era un fenomeno fisico, aveva delle cause, ma gli abbiamo trovato un copione. E una volta che scrivi un copione, qualcuno recita, qualcuno replica.
Perché il copione s’è scritto, dal 1966, anno dopo anno. Riga dopo riga. Ed erano le reti idriche senza più manutenzione, i canali che diventano cloache melmose, i fossi interrati. Erano le terre infarcite di fertilizzanti, di erbicidi, le falde con sostanze cancerogene. Erano le produzioni industriali incuranti del fatto che non puoi lavorare e avvelenarti al prezzo della stessa busta paga. Perché tutti questi immaginifici sceneggiatori, in quel teatro surreale che è stato il nostro amatissimo Veneto, non avevano ritegno nel comporre il copione: la terra e l’acqua non sono le fondamenta della nostra esistenza, sono palcoscenici che servono per rappresentare i miti della crescita e finito lo spettacolo si cambia fondale, o si delocalizza, o ci si stupisce, ipocritamente, quando franano le montagne, le falde devono essere bonificate, gli stessi insediamenti industriali devono essere sanati, quando saltano le lagune: ma di chi sarà la colpa?
Sfortuna? All’interno di questo copione hanno avuto un ruolo imprenditori voraci, uomini delle istituzioni infedeli, politici rampanti e in questa grande Compagnia del Disastro, che si esibiva in tutta la Regione, non potevano non primeggiare quelli che hanno visto l’occasione, dopo il 1966, di salvare Venezia, la Dominante.
Hanno annusato il fascino del mettere al sicuro un millennio di bellezza con un mirabolante tripudio di calcoli e di ingegneria, qualcosa di mai visto.
Un progetto all’altezza della Dominante, qualcosa che fosse una narrazione mitica, ancora prima di un manufatto, che avrà una gestazione elefantiaca, un costo elefantiaco, una corruzione elefantiaca.
Nasce dal narcisismo onnipotente del calcolo, non diverso da quello che fa costruire una diga perfetta in un luogo che non la poteva contenere, non nel Vajont almeno. Esattamente come il copione del territorio come sfondo inerte è il narcisismo malato dell’economia che compromette la sua stessa esistenza.
C’ è stato, al tempo della diffusione pubblica del progetto del Mose, un ampio dibattito. Emergevano, già trenta anni fa, moltissime criticità.Non furono considerate perché sarebbero state un’altra narrazione. Un’altra idea di territorio e sviluppo.
Sprecare tempo e non guardare lontano, è nelle corde di questi tempi. Oggi si usano parole e slogan che cadono già davanti ai nostri piedi, privi della potenza proiettiva delle visioni che hanno costruito il nostro mondo.L’energia che spazza le nostre coste, che solleva i fluidi di fiumi e mari, è il prodotto di un copione che è una narrazione pericolosa. Venezia è uno specchio simbolico: siamo tornati al 1966 e abbiamo tutti, 53 anni in più.
Ma senza visione.
Spazziamo il fango da questa splendida capitale della bellezza, ma spazziamo anche i copioni che assegnano a Venezia il ruolo dell’Insalvabile. E sarebbe, per tutti, una tragedia.