Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

QUELLO CHE I FIGLI NON SANNO

- Di Eugenio Tassini

Luca aveva 17 anni, viveva a Fiume Veneto, e per Natale col primo stipendio si era regalato una moto da cross. La desiderava, la sognava, e per festeggiar­e ha subito voluto farci un giro. È morto dopo appena due chilometri, tanto è durato il suo sogno e la sua vita. Davide di anni ne aveva venti, viveva a Piazzola del Brenta, e prima della cena di Natale voleva andare a salutare gli amici. Così alle 19 è uscito di casa con la sua Smart, ma per la fretta ha saltato uno stop a pochi metri da casa sua. In tasca gli anno trovato un panetto di hashish. Pietro, 20 anni, tornava da una festa, aveva bevuto, e a mezzanotte era alla guida della sua auto con due amici. Pioveva forte, e non c’erano luci in quel tratto. Andava a 70 all’ora in una strada a tre corsie, ma è una strada pur sempre in città, ai lati locali e ristoranti, semafori e strisce pedonali. Con lui due amici, insieme verso il centro di Roma, verso casa. Ha travolto due ragazze di sedici anni, Gaia e Camilla, che attraversa­vano la strada anche se il semaforo per loro era rosso. Anche loro tornavano a casa, e correvano, mano nella mano. Loro sono morte, lui è stato arrestato.

I giovani sono sempre stati in pericolo, e sono sempre stati un pericolo. D’altronde sono loro che da sempre vanno in guerra o fanno le rivoluzion­i. Non hanno confini o limiti, non hanno regole o prudenze, non avvertono la precarietà, sono pronti a qualunque esperienza, non hanno paura di morire. Hanno fretta di vivere. È sempre stato così.

Ma oggi è il numero di coloro che si perdono in questa avventura che è la vita che sgomenta. Le stragi del venerdì sera, le famiglie distrutte, le telefonate nella notte («tranquilli, sto tornando, fra poco arrivo» e poi arrivano i carabinier­i, e suonano il campanello).

Così qualche domanda queste vite infrante la pongono anche a noi adulti. Troppo facile chiudere ogni tragedia come fosse una singola fatalità, una singola imprudenza, un singolo errore. «Siamo tutti coinvolti», come si diceva una volta per altre storie.

Siamo noi, noi adulti, che abbiamo inventato gli aperitivi negli anni Ottanta, il vino prima di cena, e i cocktail dopo cena (che negli anni 60 si vedevano solo nei film americani), noi che abbiamo bevuto e poi guidato chissà quante volte, e ancora noi che ci siamo spaventati ma siamo sopravviss­uti.

Questi funerali quotidiani non sono una disgrazia, ma una trincea. Come in trincea, se ti sporgi il cecchino di spara e ti uccide. Se hai bevuto e ti metti al volante sei pronto per essere la vittima o il colpevole. O tutti e due. Noi lo abbiamo imparato. Ma i nostri figli non lo sanno.

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