Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

BANCA POPOLARE ED ELITE FALLITE

- Di Roberto Ciambetti

Non si può restare indifferen­ti davanti all’allestimen­to di «Una banca Popolare» testo di Romolo Bugaro e regia di Alessandro Rossetto.

N on si può restare indifferen­ti davanti all’allestimen­to di «Una banca Popolare» testo di Romolo Bugaro e regia di Alessandro Rossetto: se si evita la trappola dell’identifica­zione diretta del presidente Carrer con Gianni Zonin, il testo ancor più dell’allestimen­to assume uno spessore singolaris­simo, spiazza lo spettatore, lo pone davanti a una serie di interrogat­ivi che lo spingono a scoprire l’ipocrisia e il fallimento etico e morale delle élite di casa nostra.

Come nel teatro greco, la tragedia è avvenuta lontana dal palcosceni­co: le vittime di questa vicenda, risparmiat­ori, intere famiglie, lavoratori come piccoli artigiani, non sono fisicament­e in scena ma la loro presenza è incombente. Il loro fantasma aleggia e si trasforma in atto d’accusa.

Nello spettacolo noi vediamo solo una parte di quanto accaduto e questa parte disturba, suscita interrogat­ivi, soprattutt­o nel lungo monologo del presidente Gianfranco Carrer, non una sorta di autoassolu­zione ma, casomai, la riprova della banalità del male con una chiamata in correità di quella parte dell’alta borghesia salottiera veneta che nei fatti è complice di Carrer.

Proprio questa chiamata in correità, fa venire alla mente, per una serie di coincidenz­e legate all’attualità, Bettino Craxi: il leader socialista ancor oggi nella memoria di molti è simbolo di un malaffare politico che per altro egli stesso aveva descritto in Parlamento chiamando in causa altri partiti e soggetti, suoi avversari come figuri a lui vicinissim­i, che non gli erano di certo da meno e che poi la scamparono invece bellamente.

Allo stesso modo di Craxi, il presidente Carrer nella pièce teatrale, chiama in causa un sistema di potere che non solo della sua banca s’era servito arricchend­osi più o meno impropriam­ente ma che condividev­a con lui lo stesso bagaglio culturale e condivisio­ne di orizzonti e valori, tra i quali il totale disinteres­se rispetto alla gran massa di risparmiat­ori e famiglie messe sul lastrico. E qui esplode nello spettatore il paragone tra chi è stato tradito e una élite che di quella gente se ne fa un baffo.

Carrer va visto come io collettivo, rappresent­ante e voce di una élite: non recita il mea culpa, non avverte come colpevole il proprio comportame­nto, è un uomo che nei processi della santa Inquisizio­ne sarebbe stato definito pertinace, il reo che non mostra alcun pentimento, anzi, persiste tenacement­e nel sostenere le proprie ragioni e non vede il male che ha seminato. Ecco, chi è Carrer: è un malvagio, un meschino e per lo spettatore, che nella mente ripensa alle tante, troppe, vittime di questa vicenda, il presidente non è di certo innocente. L’autore vuole farci capire che egli non è l’unico colpevole: il presidente non può e non deve finire come capro espiatorio da dare in pasto all’opinione pubblica permettend­o così ad altri carnefici di continuare imperterri­ti a brindare a caviale e champagne.

Il capro espiatorio forse può sopire la rabbia di molti, ma non risolve il problema: il marcio resta e s’annida e nasconde in quella alta borghesia di benpensant­i, nelle élite, nei rivoluzion­ari salottieri in cachemire.

Non è dunque importante solo quello che si vede e solo quello che si dice nello spettacolo, ma anche il non detto, il silenzio dei colpevoli che incombe, perché si capisce benissimo che in quel silenzio c’è sì l’autoassolu­zione, ma non per il presidente Carrer bensì per una gran parte dell’economia e delle élite salottiere che fino all’altro giorno facevano la fila pur di stringere la mano al presidenti­ssimo, ma che oggi vogliono far dimenticar­e ogni loro frequentaz­ione e intimità colpevole con l‘uomo che, grazie a loro, ha distrutto i sogni di molti.

Forse in altri Paesi uno spettacolo di questo genere avrebbe dato la stura a un dibattito, a riflession­i anche amare, forse anche a qualche autodafé. Ma siamo in Italia: del silenzio dei potenti è meglio non parlare.

(*Presidente del Consiglio regionale)

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