Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Mogol a Verona racconta come nascono le canzoni
Lunedì al Teatro Filarmonico di Verona nell’ambito della rassegna Idem L’autore e produttore: «Il talento è nascosto, va coltivato come un prato»
Non si definisce «poeta» Mogol, autore di canzoni entrate nella storia della musica italiana, fondatore e docente del Centro Europeo di Toscolano (alta scuola di formazione musicale) e presidente Siae. Ha firmato brani per Lucio Battisti, durante un sodalizio lungo vent’anni, per Mina, Riccardo Cocciante, Patty Pravo, Gianni Morandi, Lucio Dalla e tanti altri. Sarà Mogol in persona a parlare della sua idea di espressione poetica, durante la serata di lunedì 24 febbraio intitolata «Un angelo caduto dal cielo». L’appuntamento al Teatro Filarmonico è alle ore 21 e chiuderà la rassegna Idem (informazioni su www.idemon.net).
Se lei non è un poeta, allora chi lo è?
«Chi sa leggere la bellezza della vita e comunicarla agli altri. È troppo presto per parlare di me: si scopre se i pensieri di un autore restano nella memoria della gente solo se resistono cinquant’anni dopo la sua morte. Perché per espressione poetica, secondo me, non s’intende parlare in forma aulica, ma comunicare emozioni. E il mio mestiere è vivere la vita».
Qual è il segreto per scrivere canzoni come le sue, destinate a lasciare il segno?
«Io mi limito a seguire il senso della musica. Succede anche quando si parla: se si deve confessare qualcosa di intimo, si parla sottovoce, perché sarebbe fuori luogo mettersi a gridare. Ha presente la canzone “Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi...”? Quando Battisti canta “le discese ardite” la musica va giù, mentre per “le risalite” torna in quota e così via “su nel cielo aperto e poi giù il deserto. E poi ancora in alto con un grande salto”».
Detta così sembra quasi facile...
«Tutt’altro, scrivere canzoni è un esercizio costante, bisogna studiare le rime e la metrica, riuscendo a fare una sintesi che abbia anche senso compiuto. È un meccanismo
complesso che, per funzionare, deve trasformarsi in automatismo. Chi osserva un pianista che suona, si meraviglia di come le sue mani corrano sui tasti, eppure chi studia ci riesce. Scrivere canzoni è la stessa cosa».
Quando ha capito di possedere questo talento?
«Il talento lo possediamo tutti. Sarebbe un’ingiustizia pensare che Dio non ne abbia accordato uno ciascuno. Solo che il talento è latente, va coltivato proprio come un prato: se lo lasci incolto, diventerà brutto, pieno di rovi ed erbacce, mentre un contadino esperto lo saprà trasformare in un orto carico di meraviglie. La terra ha le stesse prerogative in entrambi i casi: a cambiare è l’incapacità o l’esperienza di chi la coltiva. Albert Einstein diceva che tutti quanti possiamo raggiungere risultati inimmaginabili, in qualunque ambito, dopo diecimila ore di studio».
È per questo che ha fondato il Cet?
«Noi insegniamo a vedere gli ostacoli e a superarli, trasformando dei dilettanti in professionisti. Progettando la didattica del Cet, ho preso spunto da Lucio Battisti: studiava 6-7 ore al giorno, ascoltava artisti di tutto il mondo e li analizzava. Il mio primo studente è stato Zucchero: ci siamo visti ogni mercoledì per sei mesi».
Ha seguito Sanremo?
«No, finiva troppo tardi e io al massimo alle 22 sono a letto. Però posso dirti che mi è piaciuta la canzone dei Pinguini Tattici Nucleari, anche se sul modo di cantare non sempre ci siamo...».