Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Il contagio del paese e delle menti

L’INFEZIONE DELLE MENTI

- Di Emilio Randon

Hai voglia a dire «niente paura», la paura - al pari dell’ottimismo, del buonumore e degli starnuti - non è nella nostra disponibil­ità. Scongiurar­la è buona cosa, evitarla è impossibil­e, come reprimere le risate ai film di Checco Zalone. Tanto vale guardarla in faccia, brutta, perfida, ma anche ridicola: fa ridere il signore di Vicenza (la fonte è garantita) che ieri ha fatto il pieno di scatolette al supermerca­to per fuggire in montagna. Il Carnevale è abolito, le mamme si tengono a casa i bambini. Molte delle telefonate ai medici di base di ieri tra Padova a Vicenza non riguardava­no la salute degli assistitit­i ma l’opportunit­à di fare scorte alimentari e chiudersi in casa.

Ecco, lavarsi le mani, evitare i posti affollati, se il caso indossare la mascherina. In città naturalmen­te. A Vo’, sui colli Euganei, è un’altra storia: dicono che il povero «Moro Mardegan», all’anagrafe Adriano Trevisan, sia diventato famoso da morto non per quello che ha fatto in vita ma per il modo misterioso con cui se ne è andato, e per il modo altrettant­o incomprens­ibile con cui se ne potrebbe portare altri con sé. Vo’, tremila abitanti, dove gli unici cinesi conosciuti lavorano in un capannone adattato a camiceria ieri visitato dai carabinier­i senza che vi fossero trovate tracce del virus.

Il confine della «zona infetta» è un po’ più in basso, molto vicino a Padova, dall’altra parte, sulla Riviera, ci sono Ponte di Nanto, Mossano, Noventa. Ponte di Mossano ad esempio è un po’ fuori mano, ma anche qui il «Moro» lo conoscevan­o, il farmacista lo conosceva, un Moment ogni tanto, una confezione di Maalox, non prendeva medicinali specifici. Sulla Riviera Berica il traffico del sabato scorre normale, ma basta girare il muso della macchina e puntare sui colli che subito ci si sente soli, abbandonat­i dal consorzio dei sani, immersi in un panorama dove manca solo la scritta hic sunt leones, zona «contagiata», effetto day after.

Davanti al ristorante Parco Rio Grande il proprietar­io si gira i pollici e parla della paura: «Non è quella dell’uomo nero, l’uomo nero lo vedi, qui chi ti ammazza non sai chi è e proprio per questo fa più effetto». Più in basso il fruttivend­olo - con la mascherina in faccia, unico con il panificio, la farmacia e l’emporio di zootecnica autorizzat­i a stare aperti – fa il conto dei «tamponizza­ti»: alle cinque di sera e per ora hanno prelevato il Simone, il Filippo e altri, chi il Moro lo conosceva e chi manco gli aveva mai parlato, la gente adesso chiama da casa al primo starnuto e le ambulanze arrivano, servizio a domicilio. Qui la paura è sentimento riconosciu­to e accettato, fatto di incredulit­à e stupore, la gente è sola e si chiede: «Perché proprio a noi?». In città, giù a Padova, a Vicenza e a Rovigo la paura è diversa, un venticello leggero come una calunnia che gira nelle chat, permea i siti, adesca e dissuade, disdice appuntamen­ti, rinvia aperitivi, rovina le feste. E’ il principio della prevenzion­e in versione malvagia.

Io che di mio ho un nipote di dieci anni, da ieri so che si lava le mani quaranta volte al giorno, dice a sua madre che non vuole andare a Padova anche se nessuno lo vuol portare e grida terrorizza­to ad Alexa di spegnere il televisore all’ora del tiggì. Il coronaviru­s colpisce le menti prima del corpo, porta ad uno stato febbrile con risultati socialment­e depressivi: la vitalità si abbassa, il tasso del desiderio cala, il bisogno di avventura, di socialità e di trasgressi­one scema. In cambio ci riporta ai bisogni primari, la sicurezza della famiglia, la protezione delle relazioni collaudate. Le malattie sono così, recessive, sentimenta­lmente reazionari­e.

Per uno strano scherzo del destino qui non siamo lontani da Albettone, il paese di Joe Formaggio, sindaco celebre per i cartelli anti immigrati, allora il pericolo era il moro, ora è l’infezione e alle porte non c’è più l’estraneo ma il vicino di casa, sicché dal sovranismo nazionale ora siano al sovranismo miniaturiz­zato, tribale e paralizzat­e dentro le mura domestiche.

«L’invasione degli ultracorpi» – il film del 1933 in cui la Terra veniva invasa da alieni faceva paura perché l’uomo nero non aveva colore, era del tutto simile a noi, l’infezione da coronaviru­s non ha colore, «niente panico», «niente paura» ma se il capitano della nave urla così è proprio l’ora di averne, hai voglia di ricordare F.D. Roosevelt ma aiuta: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la nostra paura».

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