Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Dalla ressa dei pendolari ai vagoni «lunari» Sui binari della paura

- Massimilia­no Cortivo

Ci abbiamo pensato. Ovvio che l’abbiamo fatto. Che facciamo, auto o treno? Di solito prendiamo il Regionale delle 7.25 da Gaggio Porta Est, cambiamo a Mestre e prendiamo quello per Bologna dei 53 che ci fa arrivare a Padova alle 8.07. Di solito. Ma il 24 febbraio 2020 non è come venerdì 21, quando il «Corriere del Veneto» titolava «Revisori, scontro tra Pmi e governo», nei bar si parlava di primavera alle porte e al massimo qualcuno buttava là un’idea per carnevale. E’ cambiato tutto ed è cambiato anche per i pendolari.

I nuovi contagi hanno disegnato una linea della paura ben precisa. Linea che in pratica corre parallela ai binari. I nostri binari. Ovvio che uno se lo chiede, stavolta: andiamo in treno come sempre o prendiamo la macchina? Ma nel momento esatto in cui ci siamo posti la domanda ci siamo anche vergognati. No. Deciso. Si prende il treno.

Al binario non vediamo la signora sui Cinquanta che di solito parla con la figlia al telefono (ma magari è una dipendente universita­ria), non ci sono le due ragazze che sghignazza­no con gli smartphone aperti su Instagram (sono studentess­e, ci sta), manca all’appello quell’uomo alto alto che ultimament­e arriva con il monopattin­o elettrico (che diavolo di lavoro farà?), insomma non c’è quasi nessuno. Dentro il treno a due piani stessa scena: vuoto. E troviamo comodament­e posto, come non avve- niva dall’agosto scorso. Qualche dubbio inizia a venirci. «Con la macchina a quest’ora saremmo già all’altezza del casello di Villabona». I pochi pendolari parlottano, sentiamo poco ma le facce non sono proprio da racconto del fine settimana. Intercetti­amo una sola sillaba e capiamo: Vo’. Scendiamo a Mestre, che per noi abitanti delle campagne ha sempre un po’ l’effetto della metropoli. E le vediamo subito, proprio come in una grande città: bianche, quadrate, tonde, ovali, verde sala operatoria e addirittur­a una rigida da allarme chimico. Sì, mascherine. Quelle che nei giorni scorsi abbiamo visto sui giornali e in tv, quelle che avevamo conosciuto a Tokyo anni fa. Ci viene da sorridere e mandiamo subito un whatsapp a un amico che sta a Barcellona, dove hanno appena fatto saltare il «Mobile World Congress». Follie, ci diciamo con un vocale mentre andiamo verso il binario 10. Ma intanto, il pensiero continua a fare il suo lavoro sotterrane­o: «Autostrada sgombra, ora saremmo ben oltre Dolo». Saliamo le scale e quasi ci scontriamo con due turiste americane forse alle prese con il carnevale annullato che provano a sistemarsi a vicenda le benedette mascherine. Poca gente sul marciapied­e, solo una sedia occupata. Solo che la persona seduta ha i tratti orientali e anche noi, in fin dei conti, siamo abituati ad aspettare la coincidenz­a in piedi. Di solito salire sul treno il lunedì è come un assalto alla carovana. C’è gente che studia la velocità di arrivo e la lunghezza della frenata per farsi trovare il più vicino possibile all’apertura delle porte e guadagnare a spallate un posto. Oggi niente. Lunedì 24 febbraio alle ore 7.53 ci siamo praticamen­te solo noi, le due americane, il cinese e qualche altra faccia nota del binario 10. E il capotreno che fischia. Scegliamo addirittur­a il posto vicino al finestrino, notiamo più di qualche briciola sui sedili e alcuni coriandoli per terra e pensiamo due cose: 1) Ma non avevano detto che venivano sanificati tutti i treni? 2) Fossimo andati in macchina saremmo già a Padova. Dopo venti minuti ci arriviamo anche noi ma ormai, tra la lettura dei giornali, questo vuoto, questi silenzi e qualche colpo di tosse abbiamo maturato la convinzion­e che sì, forse se avessimo preso l’auto sarebbe stata la scelta giusta. Usciamo dalla stazione. Ci viene incontro un ragazzo col giornale in mano: «Lotta comunista, signore?». Meno male: finalmente una boccata d’aria di normalità. Senza mascherina.

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Semidesert­i Pochi pendolari e con la mascherina

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