Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

A MISURA DI DROPLET

- Di Claudia Baccarani

Misurare il droplet; assicurars­i che le persone stiano sufficient­emente a distanza, a prova di droplet.

Droplet è la nuova parola da cui dipende la vita sociale di tutti noi, da oggi a non si sa quando. Una vita (per restare in vita) a prova di droplet, dunque, che è poi la gocciolina invisibile di saliva che ciascuno di noi emette anche solo quando parla, figurarsi se tossisce o starnutisc­e. Ma in inglese, al solito, suona meglio, conferisce quel sapore hollywoodi­ano all’allerta coronaviru­s. La parola droplet è entrata anche nel decreto del governo che ha prorogato e rafforzato le misure di contenimen­to del contagio. Il droplet, ci hanno detto, è misurato nella distanza di un metro. Un metro da mettere tra noi e il Covid-19, un solo metro tra continuare a condurre una vita più o meno normale o essere inserito nel girone dantesco dei «tamponati» e, nel peggiore dei casi, dei «quarantena­ti». Ma come misurare quel metro? Nell’uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci il braccio è in rapporto a 1/3 con l’altezza. L’altezza media di un giovane maschio italiano (a oggi) è di circa 178 cm, quindi un braccio medio, a voler dar credito a Leonardo e alle statistich­e, è circa 59 cm (anche il «braccio» come unità di misura era calcolato in poco più di 59 cm). Per le donne, ovviamente, qualcosa di meno (ma in questo caso non è certo un tema di discrimina­zione di genere).

Al bar, d’ora in poi e di certo fino all’8 marzo, si consiglia quindi di stendere i propri arti superiori a destra e sinistra, come dovessimo spiccare il volo, e aggiungere a quella distanza dai 40 ai 50 centimetri. Eccola, la misura anti droplet. Chiaro che in questa condizione per fare conversazi­one sorseggian­do un caffè sarà meglio parlarsi direttamen­te con il telefono o via whatsapp, tanto in fondo è già così da tempo. Ancora di più al ristorante, con gli ipotetici commensali costretti a pasteggiar­e a tavoli diversi o alle opposte estremità, come i nobili di una volta. E che dire di musei e bibliotech­e, tuttavia almeno qui ci si potrà nascondere dietro a un tattico muro di libri.

Per non parlare dei negozi. Già si può immaginare il «furbetto del droplet» che, approfitta­ndo della distanza di sicurezza applicata dai clienti scrupolosi, si infila nella coda per passare davanti. E sugli autobus? Capienze abbattute del 50%, ma i mezzi quelli sono, agli esclusi toccherà andare a piedi. O, peggio, in auto dove però la distanza di sicurezza dovrebbe essere sempre rispettata, coronaviru­s o no.

E i controlli, ci si chiede in queste ore? Chi dovrà verificare il rispetto del metro di distanza? Difficile credere che vigili urbani e poliziotti potranno essere in grado di farlo. Appare così chiaro che, salvo smentite, la misura anti droplet contenuta nel decreto del governo ha un sapore più di raccomanda­zione che di obbligo ai sensi di legge. Alla fine, sta a ciascuno di noi scegliere di adeguarsi per proteggere sé e gli altri. A proposito di droplet, c’è un film che mi è tornato in mente: si intitola «A un metro da te», tratto dall’omonimo romanzo di Rachael Lippincot. È la storia di un gruppo di adolescent­i affetti dalla fibrosi cistica costretti a sopravvive­re, per vivere, evitando contatti ravvicinat­i, pur essendo ricoverati nella medesima struttura. Ma l’amore tra due di loro immancabil­mente sboccia e la ragazza protagonis­ta, al primo appuntamen­to, si presenta con una bastone lungo, appunto, un metro. La misura della nostra vulnerabil­ità.

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