Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Basta carte e Gazzetta Il «bar sport» sparisce e diventa «bar corona»
L’infezione e i cinesi protagonisti delle ciacole
TREVISO Non ci sono più partite di calcio da commentare, scope e assi da buttare sul tavolo, brioche prima di entrare in classe. I bar e ancor più le osterie, cartina di tornasole della vita di Treviso, ai tempi del coronavirus raccontano quello che una città intera sta vivendo da dieci giorni. Giorni sospesi in cui la «ciacola» sparisce, si prova a cambiare argomento ma si finisce sempre lì. Che uno ha il figlio a casa da scuola e non sa come fare, l’altro il nipote che lavora in ospedale, e il vicino della cognata ha detto che suo fratello è stato a Vo’. «Ma l’anno scorso, per fortuna». Come se bastasse citare la cittadina simbolo dell’emergenza veneta per avere voce in capitolo e buttare dentro un aneddoto.
Coronavirus e il resto scompare: ognuno con la verità in tasca o con la testa piena di dubbi e domande, niente divagazioni, la conversazione prende una piega monotematica. La cronaca e il gossip si smontano, pezzo dopo pezzo, gli anziani avventori abituati alla briscola stanno tutti in salotto, con la città più vuota anche il resto si muove di conseguenza.
Nei bar la battuta è scontata, al punto che gli osti dietro al banco sorridono svogliatamente. «Oh, posso stare qua? Siamo sicuri che sono a un metro di distanza?». Va ben, Pepi, lì va bene. Se non altro, i giornali si leggono più a fondo, col bisogno che c’è di informarsi a dovere. Tavolo per tavolo non c’è modo di sfuggire. Partite allo stadio a porte chiuse? Coronavirus. I turisti scomparsi e gli alberghi vuoti? Coronavirus. L’azienda senza rifornimenti? Coronavirus. Cosa si fa stasera? Usciamo, andiamo a berci un prosecco. Ma attenti al coronavirus. Fermateli voi, i trevigiani della movida.
Le storie su cui ridacchiare si riducono, non si fa più pettegolezzo. All’osteria accanto al liceo, due ragazze di diciott’anni (che tante tante cose avrebbero da dirsi, fra vacanze improvvise, amori non corrisposti e resoconti della serie tv preferita) si scambiano opinioni sulla zia di quel compagno di classe «che è a casa in quarantena». E la biondina, facendosi seria, sentenzia: «Non ho mai avuto tanta paura in vita mia». Pensano ai nonni, fragili e delicati, alle insegnanti sulla sessantina, «anche loro sono a rischio».
Tutto è coronavirus, oggi. Solo i più arditi usano Covid19, Sars Cov2 non lo chiama nessuno.
E i cinesi. Ogni tanto qualcuno si inserisce con l’affermazione, non la domanda: e i cinesi. «Sono tutti chiusi, l’hai notato? - strizza l’occhio un oste -. C’hanno il governo, il partito, che li sostiene economicamente. Ha detto, chiudete tutti così non ci sono differenze territoriali, vi rimborsiamo noi, vedi come fanno di là, li aiutano i loro imprenditori». Ma dove l’hai letto? «Me l’ha detto uno». Allora ci si guarda in giro ed è vero, le serrande sono abbassate. Si parla di circolari, ministeri, linee guida. «Ti sei lavato le mani?». È l’osteria che si mobilita. Si cerca di sdrammatizzare.
Non sorprende quindi di incrociare sotto i portici del Calmaggiore due ragazzi asiatici, di idioma incomprensibile per chiunque non abbia studiato lingue orientali, che emettono suoni cantilenanti e sconosciuti per tutta la passeggiata, fino a quel termine intraducibile e internazionale: «Corona» pronunciano due bengalesi che confabulano fitti fitti, stretti nei loro giacconi. E i trevigiani si girano, capiscono l’unica parola che serve, tirano dritto. Ne hanno già parlato che basta seduti in osteria. A un metro l’uno dall’altro, sia chiaro.
Oh, posso stare qua? Siamo sicuri che siamo a un metro? Va ben, Pepi, lì va bene