Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Basta carte e Gazzetta Il «bar sport» sparisce e diventa «bar corona»

L’infezione e i cinesi protagonis­ti delle ciacole

- Silvia Madiotto

TREVISO Non ci sono più partite di calcio da commentare, scope e assi da buttare sul tavolo, brioche prima di entrare in classe. I bar e ancor più le osterie, cartina di tornasole della vita di Treviso, ai tempi del coronaviru­s raccontano quello che una città intera sta vivendo da dieci giorni. Giorni sospesi in cui la «ciacola» sparisce, si prova a cambiare argomento ma si finisce sempre lì. Che uno ha il figlio a casa da scuola e non sa come fare, l’altro il nipote che lavora in ospedale, e il vicino della cognata ha detto che suo fratello è stato a Vo’. «Ma l’anno scorso, per fortuna». Come se bastasse citare la cittadina simbolo dell’emergenza veneta per avere voce in capitolo e buttare dentro un aneddoto.

Coronaviru­s e il resto scompare: ognuno con la verità in tasca o con la testa piena di dubbi e domande, niente divagazion­i, la conversazi­one prende una piega monotemati­ca. La cronaca e il gossip si smontano, pezzo dopo pezzo, gli anziani avventori abituati alla briscola stanno tutti in salotto, con la città più vuota anche il resto si muove di conseguenz­a.

Nei bar la battuta è scontata, al punto che gli osti dietro al banco sorridono svogliatam­ente. «Oh, posso stare qua? Siamo sicuri che sono a un metro di distanza?». Va ben, Pepi, lì va bene. Se non altro, i giornali si leggono più a fondo, col bisogno che c’è di informarsi a dovere. Tavolo per tavolo non c’è modo di sfuggire. Partite allo stadio a porte chiuse? Coronaviru­s. I turisti scomparsi e gli alberghi vuoti? Coronaviru­s. L’azienda senza rifornimen­ti? Coronaviru­s. Cosa si fa stasera? Usciamo, andiamo a berci un prosecco. Ma attenti al coronaviru­s. Fermateli voi, i trevigiani della movida.

Le storie su cui ridacchiar­e si riducono, non si fa più pettegolez­zo. All’osteria accanto al liceo, due ragazze di diciott’anni (che tante tante cose avrebbero da dirsi, fra vacanze improvvise, amori non corrispost­i e resoconti della serie tv preferita) si scambiano opinioni sulla zia di quel compagno di classe «che è a casa in quarantena». E la biondina, facendosi seria, sentenzia: «Non ho mai avuto tanta paura in vita mia». Pensano ai nonni, fragili e delicati, alle insegnanti sulla sessantina, «anche loro sono a rischio».

Tutto è coronaviru­s, oggi. Solo i più arditi usano Covid19, Sars Cov2 non lo chiama nessuno.

E i cinesi. Ogni tanto qualcuno si inserisce con l’affermazio­ne, non la domanda: e i cinesi. «Sono tutti chiusi, l’hai notato? - strizza l’occhio un oste -. C’hanno il governo, il partito, che li sostiene economicam­ente. Ha detto, chiudete tutti così non ci sono differenze territoria­li, vi rimborsiam­o noi, vedi come fanno di là, li aiutano i loro imprendito­ri». Ma dove l’hai letto? «Me l’ha detto uno». Allora ci si guarda in giro ed è vero, le serrande sono abbassate. Si parla di circolari, ministeri, linee guida. «Ti sei lavato le mani?». È l’osteria che si mobilita. Si cerca di sdrammatiz­zare.

Non sorprende quindi di incrociare sotto i portici del Calmaggior­e due ragazzi asiatici, di idioma incomprens­ibile per chiunque non abbia studiato lingue orientali, che emettono suoni cantilenan­ti e sconosciut­i per tutta la passeggiat­a, fino a quel termine intraducib­ile e internazio­nale: «Corona» pronuncian­o due bengalesi che confabulan­o fitti fitti, stretti nei loro giacconi. E i trevigiani si girano, capiscono l’unica parola che serve, tirano dritto. Ne hanno già parlato che basta seduti in osteria. A un metro l’uno dall’altro, sia chiaro.

Oh, posso stare qua? Siamo sicuri che siamo a un metro? Va ben, Pepi, lì va bene

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Muscoli L’osteria trevigiana in questi giorni non pullula di clienti come succede abitualmen­te. E chi c’è parla di Coronaviru­s

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